L’appuntamento centrale della stagione dei Concerti del Lingotto vede il ritorno a Torino di uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutto il pianeta, Valery Gergiev, alla testa della “sua” Orchestra, quella del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, istituzione di cui è alla guida esattamente da trent’anni – incaricato direttore musicale nel 1988, dal 1996 ne è direttore artistico e generale: senza dubbi uno dei sodalizi artistici più longevi al mondo. Un’altra certezza è legata alla considerazione che molta musica russa un tempo poco frequentata nelle sale da concerto così come nei teatri è stata portata alla più vasta attenzione internazionale proprio grazie al lavoro di Gergiev, non solo quello svolto a San Pietroburgo – dove ha peraltro avviato la consuetudine di dedicare festival monografici in concomitanza con anniversari legati a compositori russi – ma anche e soprattutto in veste di direttore ospite fra i più richiesti e attivi in tutto il globo.
Quello della Fiaba dello Zar Saltan è un Rimskij-Korsakov sfolgorante: in vista delle celebrazioni per il centesimo anniversario della nascita di Aleksandr Puškin (1900), scelse di musicare un suo testo di genere espressamente fantastico per allontanarsi da soggetti improntati al realismo drammatico (i più frequentati in quegli anni) e poter così riversare sulla partitura un campionario di invenzioni coloristiche: il culto per la tradizione russa si sposa in modo particolarmente brillante con la grande sapienza di orchestratore del maestro di Prokof’ev e Stravinskij. Suo allievo fu anche Anatolij Ljadov (di poco più giovane, poi collega al Conservatorio di San Pietroburgo), curiosa figura di musicista figlio d’arte, riconosciuto come grande virtuoso della scrittura e al contempo perennemente insoddisfatto dei suoi lavori. L’attenzione al dettaglio rivela nel suo breve poema Il lago incantato un approccio pre-impressionista, presagibile anche nella descrizione che Ljadov stesso fece a un amico: «la moltitudine di stelle che si libra sui misteri del profondo… solo natura, fredda, malevola e fantastica come in una fiaba. Si deve sentire il cambiamento dei colori, il chiaroscuro, la quiete incessantemente mutevole e l’apparente immobilità».
La mirabile sospensione estatica di questa pagina bilancia la presenza di due brani piuttosto animati di Rachmaninov. La sua ultima composizione, le Danze sinfoniche, nasconde dietro lo sguardo retrospettivo (musicalmente capace, per una volta, di guardare a Prokof’ev e Stravinskij) il carattere macabro piuttosto che festoso di queste danze, chiuse dalla citazione del Dies irae gregoriano. Sul gradino più alto della scaletta, quello centrale, chiamata sul palco la pianista Varvara Nepomnyashchaya, suono ferreo e articolazione sgranata, si ascolta invece il suo brano più famoso, il famigerato Rach2.
Simone Solinas