La London Philharmonic è orchestra che il repertorio (e molto più che il repertorio) dall’anno della sua fondazione, l’ormai lontano 1932, ad oggi lo ha percorso in lungo in largo. Vladimir Jurowskij, classe 1972, figlio d’arte, con l’Italia vive un costante e proficuo rapporto artistico, avendo così avuto modo di dare molteplici prove del suo valore, sia nel sinfonico, sia nell’opera. Ray Chen, infine, il più giovane (1989) di formazione musicale australiana, vincitore del Menuhin (2008) e del Queen Elisabeth (2009) è oggi tra i protagonisti della nuova scena violinistica internazionale.
A loro toccherà dar vita, per Lingotto Musica, a questo accostamento insolito che vede uno accanto all’altro Sibelius – di cui Jurowskij è peraltro interprete attento e sensibile – e Stravinskij. Un punto di contatto tra i due, per la verità, lo si può trovare: entrambi sono stati innovatori e conservatori al tempo stesso. Ciò non vuol dire che gli esiti della loro produzione artistica si somiglino, e tantomeno che siano stati innovatori e conservatori alla medesima maniera. Così come si può essere rivoluzionari in modi diversi – ricordando, però, proprio quanto Stravinskij scrisse a proposito della parola “rivoluzione”: a lui non piaceva perché vuol dire tornare al punto di partenza (e non solo in senso astronomico, come la Storia ha dimostrato) – si può essere diversamente conservatori. Eccoli, allora, rovistare nelle tradizioni delle loro rispettive terre d’origine, Finlandia e Russia, confinanti e le cui vicende si sono sempre intrecciate (basti rammentare che Sibelius nasce nel 1865 a Hämeenlinna, in quello che allora era il Granducato di Finlandia, un protettorato russo) – traendone conseguenze esteticamente differenti, ma ideologicamente simili. Entrambi si sono abbeverati alle fonti delle loro origini, hanno cercato le radici, e, ciascuno a suo modo, ha poi compiuto le sue scelte. Come ben dimostra il suo unico Concerto per violino (completato nel 1904, e rivisto nel 1905) pur costruendo una partitura tripartita (Allegro – Adagio – Allegro), come da consuetudine, in realtà adotta una strategia compositiva del tutto personale, fin dal primo movimento, che si pare con la melodia affidata al solista. E’ la melodia – l’elemento che per Sibelius contraddistingue la sua idea musicale della Finlandia – la scintilla da cui nasce il brano, e che poi lo alimenta fino alla fine. Una melodia che è insieme romanzo e paesaggio, nel combinarsi di suggestioni emotive e di momenti descrittivi, così come del resto accade nelle sue celebri sinfonie. Di conseguenza la struttura del Concerto solo apparentemente rispetta il canone, ma già a un primo ascolto si intuisce che va in tutt’altra direzione: segue il libero fluire di una melodia.
Nel 1928 va in scena, la coreografia realizzata da Bronislava Nijinska per i Ballets Russes e Ida Rubinstein, Le baiser de la fée. Stravinskij omaggia Čajkovskij, da cui prende spunti e temi, e sceglie da Andersen la La vergine dei ghiacci. E’ già lo Stravinskij che tutti conosciamo (c’è molto Petruška in questo Bacio), eppure non disdegna il valzer, senza peraltro fare il verso al grande Čajkovskij, che di valzer se ne intendeva parecchio. Così ne viene fuori una partitura gradevole, brillante, persino giocosa, nonostante la trama, una partitura al passo coi tempi (quelli di allora) ma insieme priva delle asperità che in quei giorni gli ascoltatori potevano trovare nelle partiture: appunto il gustoso frutto di un conservatore innovatore.
Fabrizio Festa