Al Lingotto una maratona beethoveniana con Lonquich e l’OCM
Dieci concerti per pianoforte in 30 ore

Massimo Mila diceva che ci sono due modi di andare in montagna. Uno è cercare sempre nuovi sentieri, l’altro scoprire sempre cose nuove sugli stessi sentieri. Alexander Lonquich non è certo alla prima integrale dei cinque Concerti per pianoforte di Beethoven nella doppia veste di solista e direttore d’orchestra, e nemmeno alla prima integrale con l’Orchestra da camera di Mantova, con la quale ha da anni un consolidato rapporto di amicizia e collaborazione. Inoltre, Lonquich ama la forma della maratona, e se dipendesse da lui probabilmente eseguirebbe i cinque Concerti nello stesso giorno, non per spirito competitivo da Guinness dei primati, ma per ragioni intrinseche allo sviluppo del linguaggio di Beethoven.

Per Lingotto Musica, però, Lonquich si sublima in una maratona estiva divisa in due parti, il 30 giugno e l’1 luglio, recuperando un progetto che era in programma per l’inaugurazione della stagione ma che è stato spostato in un periodo insolito a causa della pandemia. Un’impresa certamente dettata dal Covid, ma che non dispiace per niente al pianista tedesco. Mettere uno accanto all’altro i cinque lavori, infatti, consente di cogliere meglio la rapida evoluzione di un genere come il concerto per pianoforte nelle mani di un autore che ha vissuto un’epoca di grandi trasformazioni linguistiche e rapidi sviluppi tecnici dello strumento. Il ciclo, inoltre, mette in evidenza anche le linee di continuità nello stile dell’autore, che non è meno Beethoven nei due primi Concerti del Settecento di quanto non lo sia nell’Imperatore. In altre parole, Lonquich ama condividere con il pubblico e con i musicisti le diverse sfumature scoperte nelle pieghe di lavori da sempre amati, nei quali non smette mai di ascoltare cos’hanno da dire di nuovo.

Ascoltare e condividere sono i pilastri della musica da camera, e secondo un gigante come Claudio Abbado della musica tout court, anche del repertorio sinfonico più mastodontico. Lonquich appartiene alla stirpe purissima dei cameristi, e dunque è in primo luogo un musicista e solo in seconda battuta un pianista, anche se ha tutte le qualità e le caratteristiche del virtuoso. Per Lonquich non c’è differenza tra far musica con il gesto o col pianoforte, esattamente come se al posto dell’orchestra ci fosse un quartetto d’archi.

Lo stesso vale, in maniera speculare, per l’Orchestra da camera di Mantova, una comunità di musicisti cresciuti con l’idea di partecipazione, di responsabilità individuale nel far musica insieme. Era naturale che Lonquich trovasse a Mantova la condizione ideale per esprimere l’energia e la gioia di far musica che trabocca dal suo pianoforte. Una nuova integrale di Beethoven, dunque, è l’occasione per rivivere ancora una volta assieme a Lonquich le complesse emozioni racchiuse in questi lavori, perché nel frattempo siamo cambiati noi, è cambiato il mondo che ci circonda, sono cambiate le condizioni di vita e di lavoro, e quindi non sentiamo più quella musica con le stesse orecchie di prima.
Nessuno meglio di Lonquich, probabilmente, è in grado di apprezzare la saggezza di Mila.

Oreste Bossini