Si associa spesso il quartetto per archi e l’arte della conversazione, implicando dunque quattro musicisti che condividano una medesima appartenenza sociale, una lingua, una cultura. Fondato nel 2006 a Vienna, pluripremiato al Concorso internazionale dedicato alla musica cameristica di Haydn nel 2015, il Pacific Quartet spariglia un po’ le carte, con quattro componenti di altrettante diverse provenienze: Svizzera/Germania, Giappone, Taiwan e Ungheria. Come loro stessi raccontano, portano dunque nel loro ensemble sensibilità, temperamenti e approcci alla musica (soprattutto a quella che porta in sé un tratto identità nazionale) diversi e trasformarli, intrecciarli o fonderli in un’interpretazione in cui tutti e ciascuno possano riconoscersi è la sfida quotidiana, e ovviamente il valore aggiunto, del loro fare musica insieme.
Il punto d’incontro, le fondamenta su cui poggia la loro attività, è comunque una lingua comune, il tedesco, che è anche quella dei grandi padri del genere del quartetto, a partire da Haydn: il legame fra musica e lingua, raccontano, è strettissimo e andare al cuore della lingua di Haydn significa trovare l’incredibile molteplicità espressiva della sua musica e del suo umorismo sottile e peculiare. Il tedesco è anche la lingua di Schubert, di cui i giovani strumentisti eseguono a Torino (per Lingotto Giovani il 16 gennaio) il Quartetto n. 13 in la minore D 804, detto Rosamunde per l’assonanza tematica fra suo il movimento lento e un brano dalle musiche di scena che Schubert aveva scritto nel 1823, poco prima di comporre il Quartetto in la minore, che è una pagina ricca di sfumature, ora elegiaca, ora dolcemente malinconica.
È ben più che malinconico, piuttosto lugubre, drammatico, il Quartetto n. 8 in do minore op. 110 di Dmitrij Šostakovič che apre il programma torinese del Pacific Quartet. In uno dei tanti momenti difficili della sua vita, l’autore decise che il suo funerale avrebbe dovuto essere accompagnato proprio da questa pagina, ricolma di autocitazioni e generata dall’esperienza personalmente dolorosa di un soggiorno nella Dresda devastata dai bombardamenti della II guerra mondiale, da cui la dedica “Alle vittime del fascismo e della guerra”.
Due quartetti che rimandano dunque a modi, epoche e sentimenti molto diversi, ma che perciò offrono anche un itinerario interessante per una compagine multiculturale che ha come tratto fondante del proprio lavoro proprio la capacità di ricomporre le diversità, connettere la molteplicità di lingue musicale e mondi culturali, e di ciascun autore e ciascun brano far emergere l’unicità.
Gaia Varon