Dicono di lei che sia un’antidiva, che detesti i red carpet e non perda tempo, quando prepara un disco, a scegliere le foto di copertina, preferendo concentrarsi sui contenuti. Così, avendo deciso due anni fa di incidere un cavallo di battaglia prediletto come il Concerto op. 64 di Mendelssohn, Isabelle Faust ha voluto documentarsi scrupolosamente sulla prassi esecutiva ottocentesca, indagando sulle testimonianze dei tre violinisti – Joseph Joachim, Ferdinand David e Hubert Leonard – che ne furono interpreti sotto la direzione dell’autore.
A quarantasette anni e nel pieno di una carriera che l’ha vista e la vede affiancarsi a illustri direttori, solisti e complessi strumentali (Abbado, Gardiner, Haitink, Harding, Melnikov, Berliner Philharmoniker tra i tanti) e spaziare in un repertorio che concilia la passione barocca con la curiosità nei confronti del contemporaneo (moltissime le prime esecuzioni assolute a lei affidate), la violinista tedesca non esita a mettersi in discussione. Il suo obiettivo, del resto, non è quello – e lo ha dichiarato spesso – di imporre al pubblico un suono che venga giudicato a tutti i costi unico ed irripetibile, ma piuttosto di rendere, ogni volta, merito all’autore, con spirito di servizio che non neghi l’originalità degli esiti.
Nel caso del celebre Concerto di Mendelssohn – che verrà eseguito mercoledì 13 febbraio nell’ambito del cartellone di Lingotto Musica -, allora, Faust non ha avuto remore nel riconsiderare completamente una visione e un approccio pure perseguiti da oltre trent’anni (era poco più che una bambina, all’epoca del debutto) e con successo, focalizzando la propria attenzione su questioni fondamentali legati alle dinamiche, al fraseggio e persino alla diteggiatura. E se sull’ultimo dei tre aspetti i margini d’intervento di una violinista ormai affermata possono risultare piccoli, lo stesso non vale per il resto. Oggi Isabelle Faust suona, con piena convinzione, un Mendelssohn diverso da quello che lei stessa aveva immaginato in passato e, soprattutto, diverso – meno protagonistico, forse – da quello che tanto pubblico ha imparato a conoscere e certamente anche ad amare nell’ultimo mezzo secolo di musica. Questo “piccolo terremoto” interpretativo – così lo definisce la violinista – è servito a darle nuovi stimoli. «E se qualche ascoltatore non riconoscerà il proprio Mendelssohn di riferimento, se lo rifiuterà, pazienza: io non me la sono sentita di tradire il compositore, non sarebbe stato giusto».
Così è Isabelle Faust: sincera, intellettualmente onesta, curiosa e, naturalmente, felice quando ha tra le mani il suo preziosissimo Stradivari del 1704, che qualcuno chiamò La bella addormentata dopo averlo ritrovato, incredibilmente dimenticato per un secolo e mezzo, in un appartamento di aristocratici molto distratti.
Stefano Valanzuolo