Aprendo la nuova edizione di MITOSettembre Musica nel nome della danza, il concerto della Royal Philharmonic Orchestra diretta dall’americana Marin Alsop (lunedì 3 settembre, Teatro Regio ore 21) mette subito a fuoco la zona di confluenza nella quale la musica da concerto sconfina in quella pensata per il balletto e viceversa. La musica russa ha un ruolo specifico in questa operazione, perché a partire da metà Ottocento, cioè dal momento in cui ha cercato un suo linguaggio originale, ha sempre visto nella danza una delle possibili vie d’uscita dalla tradizione classica e romantica. Al posto dell’idea di “musica assoluta”, ideale, universale, il mondo russo ha cercato di porre l’accento sulla fisicità del suono, del corpo e del movimento, attingendo alle forme della danza oppure al grande patrimonio della cultura popolare: due operazioni che spesso sono andate di pari passo.
Čaikovskij ha scritto sinfonie che si potrebbero leggere attraverso un’analisi clinica del soggetto e concerti che, come quello per violino e orchestra in re maggiore, vivono della loro vicinanza con l’immaginazione coreografica anche se la danza non è prevista dal copione. Persino il virtuosismo del solista ha, in questa pagina, il ruolo di un esercizio che trasmette energia e sentimenti così come un funambolo, camminando sulla corda, comunica a chi lo guarda la sensazione fisica delle vertigini che si provano stando lassù. Julia Fischer è un interprete ideale, da questo punto di vista, perché nel suo modo di suonare è sempre alla ricerca di un equilibrio tra l’energia e l’espressione, tra la manifestazione della forza e quella più sottile dei sentimenti.
Victoria Borisova-Ollas, quarantenne autrice d’origine russa che da molti anni vive in Svezia, ha fatto sua questa chiave di lettura evidenziando, tramite l’orchestrazione, le potenzialità dinamiche e la corporeità di una musica così densa e mutevole com’è quella di Schumann. Non è l’unica ad avere puntato su Schumann per questo genere di operazione. Si può ricordare il lavoro recente di Beat Furrer sulle Novelletten, pure in origine per pianoforte, o il puzzle di frammenti pianistici, Lieder e musica da camera tentato un ventennio fa da Uri Caine in un esperimento proiettato verso l’improvvisazione e il jazz. Victoria Borisova-Ollas ha scelto però opportunamente Kinderszenen, una raccolta nella quale ogni singolo episodio fa storia a sé, come se si trattasse di “numeri” in uno spettacolo di circo, ma al tempo stesso è unito da linea narrativa ed espressiva che tiene unito l’insieme e permette maggiore libertà alla sovrascrittura d’autore.
Il caso di Stravinskij, in questa costellazione, non ha quasi bisogno di essere introdotto: i Balletti Russi, nel suo caso, indicano non solo una collocazione ideale, ma il nome della compagnia con la quale collaborò a Parigi, diretta dal leggendario Sergej Djagilev, e alla quale consegnò molti dei suoi capolavori, a partire proprio da L’oiseau du feux. Recensendo la sua musica nel 1913, dopo il contestatissimo debutto del Sacre du Printemps, una delle più autorevoli riviste francesi dell’epoca, il «Mercure de France», scrisse che Stravinskij aveva scritto fino ad allora «troppi balletti», in fondo musica minore, di servizio, e aveva evitato invece di misurarsi con i generi nobili della musica strumentale, la sinfonia e il concerto. Ancora in tarda età Stravinskij ricordava quella critica, che in qualche modo aveva scavato dentro di lui. Sapeva però anche di aver trovato, tramite la coreografia, il passaggio verso una dimensione fisica del suono che nessuna sinfonia, a quel tempo, avrebbe potuto dargli, e che vive oggi in qualunque esecuzione di quella musica in concerto, senza danza o con una “danza interna”, per così dire, cioè con quel movimento a cui siamo portati con il pensiero, se non con il corpo, anche quando siamo seduti in una poltrona di teatro.
Stefano Catucci