Che la musica si ascolti solo con le orecchie è un preconcetto duro da superare. Ogni giorno, le riviste specialistiche di tecnologia promuovono un nuovo modello di auricolari sempre più performanti, per relegarci in un limbo in cui – ci raccontano – il suono riacquista la sua nativa purezza (senza che a nessuno importi, per poca conoscenza o consapevolezza, che la traccia che si sta ascoltando è quasi sempre un mp3 di pessima qualità, e che dunque quel surplus di tecnologia va del tutto sprecato). Invece, è proprio concentrandoci esclusivamente sull’aspetto uditivo ci priviamo di parti essenziali del suono, e dunque della musica.
Il suono è vibrazione: lo è a livello fisico (e lo sa bene chi è avvezzo a frequentare concerti rock, in cui anche in un’arena gigantesca l’energia dei subwoofer fa sobbalzare lo stomaco con molta più forza di quanto le frequenze acute giungano alle orecchie), lo è a livello emotivo. Ogni suono – soprattutto quando si trasforma in musica – compenetra uno spazio, necessita di un movimento, coinvolge uno o più corpi, suscita un’emozione, stabilisce una relazione: è per questo che il rapporto tra musica e danza è da sempre così profondo, naturale, immediato. Non che faccia male, ogni tanto, stare soli con se stessi godendosi la musica in cuffia, ma se la privazione delle caratteristiche fondanti del suono diventa sistematica è la musica stessa a soffrirne, insieme alla nostra capacità di ascoltare.
Nell’ambito del Festival MITO-SettembreMusica (che al tema della “danza” e alle sue relazioni intime con la musica è dedicato), c’è invece una possibilità per riconciliarsi con una modalità di ascolto più totale e profonda.
Evelyn Glennie è una percussionista scozzese, tra le poche ad aver centrato una carriera solistica a livello mondiale, vincitrice di diversi Grammy Award, regolarmente invitata dalle maggiori compagini del pianeta, dedicataria di molti brani contemporanei, compositrice, non udente. Ad ogni suo concerto, è il pubblico in sala ad imparare un nuovo modo di ascoltare: la musica, che le orecchie non le consentono di sentire, le arriva attraverso il movimento, la vista, la vibrazione corporea, una straordinaria sensibilità per le diverse sollecitazioni che producono le bacchette e i battenti con cui percuote i suoi strumenti. L’effetto per lo spettatore è quello di una musica non solo più da fruire con le orecchie, ma disegnata nello spazio, e per questo ancora più viva, totalizzante. Per MITO (mercoledì 12 settembre, Conservatorio ore 21), insieme al pianista Philip Smith, Evelyn Glennie proporrà un recital con brani contemporanei, ma soprattutto ricorderà ad ognuno di noi che il suono che esce dalle cuffiette non è che una componente, parziale e non sufficiente, di ciò che di solito chiamiamo musica.
Gabriele Montanaro