Erodoto racconta che gli Sciti, abitanti delle gelide terre estese oltre il Mar Nero e il Danubio, discendevano da Eracle, il quale si era unito a una creatura dalla duplice natura, per metà donna e per metà serpente. In Occidente è sempre stato ostico comprendere e accettare l’apparente schizofrenia della cultura russa, capace di esprimere nello stesso tempo gli slanci vitali più impetuosi e i pessimismi più abissali, le passioni più sfrenate e la disciplina più rigida. Del resto la Russia è stata capace di costruire ex novo la capitale San Pietroburgo, una sorta di Brasilia del Settecento, in una delle zone maggiormente deserte e inospitali del suo vasto impero, contro ogni logica della storia e della geografia. Forse, invece, è proprio questo immenso sperpero di sé, il gettarsi con estrema leggerezza nel fiume della vita, per restituirne però generosamente l’oro spirituale, a rendere unica e indispensabile la grande letteratura russa, la sua musica, il suo teatro.
Nessun musicista incarna meglio di Čajkovskij la natura anfibia della progenie slava. Malgrado la forma e la sintassi pienamente occidentali, l’intima fibra della musica di Čajkovskij è visceralmente attaccata al mondo sonoro del popolo russo. La sua slavofilia è diversa da quella di Musorgskij solo nello stile e nella prospettiva, non nell’intensità del legame. Il Primo Concerto per pianoforte è un esempio perfetto del dualismo insito nella musica di Čajkovskij. Il pianista Nicolaj Rubinstein, fondatore del Conservatorio di Mosca e completamente imbevuto di musica occidentale, provò un’istintiva repulsione per il Concerto, quando Čajkovskij glielo fece sentire. Gli sembrava una selvaggia accozzaglia d’idee volgari senza stile e senza gusto, salvo poi ricredersi e diventare uno dei campioni del Concerto. Rubinstein, a differenza di noi ascoltatori d’oggi, sentiva probabilmente in questo lavoro una preponderanza dell’elemento russo che lo infastidiva, mentre Čajkovskij, che amava in maniera viscerale la natura della sua infanzia, si sforzava d’infondere nelle forme classiche lo spirito del paesaggio russo.
Anche la musica di Prokof’ev contiene un’alta dose di enigmatico dualismo. La sua natura è profondamente eversiva del linguaggio ottocentesco, ma per paradosso la forza espressiva della sua musica ha saputo rianimare il grande balletto romantico, che sembrava spento assieme a Čajkovskij. Raccontare una storia d’amore e morte qual è Romeo e Giulietta soltanto con il linguaggio musicale, mantenendo desta l’attenzione del pubblico per due ore e mezzo, è un’impresa che nel Novecento è riuscita solo a Prokof’ev, l’enfant terrible della musica russa. Come si getta l’amo in questa gigantesca partitura, si pesca bene. Sono innumerevoli, infatti, le varianti delle Suite che si possono ricavare da Romeo e Giulietta. Ogni direttore si aggiusta la sequenza dei numeri in base al proprio gusto, e al senso narrativo che sceglie d’imprimere. Una cosa sola non può mancare, la Danza dei cavalieri, il motivo che tutto il pubblico aspetta e che molti portano nel cuore fino al giorno dopo, per canticchiarlo sotto la doccia, accorgendosi con sgomento di non essere capaci d’intonarla, perché la musica di Prokof’ev sembra facile ma non lo è.
Oreste Bossini
MITO Settembre Musica
giovedì 13 settembre 2018
Torino, Teatro Regio – ore 21
Orchestra del Teatro Regio
Vasily Petrenko direttore
Elisso Virsaladze pianoforte
PASSIONI
Pëtr Il’ič Čajkovskij
Concerto n. 1 in si bemolle minore per pianoforte e orchestra op. 23
Sergej Prokof’ev
Brani da Romeo e Giulietta, Suite n. 1 e n. 2