«Il ballerino danza se noi sappiamo suonare danzando e questo è un processo assai sottile e difficile da descrivere a parole.» Vittorio Ghielmi è oggi uno dei più capaci e ammirati violisti da gamba e deve il suo successo a una miscela sapientemente misurata di studio, tecnico ma anche musicologico, e disponibilità a mettersi in gioco con curiosità e fantasia aldilà del comodo recinto in cui potrebbe restare. La nuova edizione di MITO offre due occasioni di ascoltarlo, diverse fra loro ma unite dal tema della danza. In duo col clavicembalista Florian Birsak, propone un viaggio nella musica strumentale francese fra Sei e Settecento, intitolato significativamente Les caractères de la danse (lunedì 10 settembre, Conservatorio ore 17).
Vittorio Ghielmi, come e fino a che punto la musica strumentale che suonerete trae dalla danza forme, stile e carattere? Prende, per così dire, involucri che poi trasforma facendone altro o rimane nell’essenza danza? In altre parole, quanto c’è ancora della danza danzata e quanto se ne è staccata per farsi puro gioco sonoro?
«La danza è e rimane la base sentitissima e sempre praticata del Sei/Settecento francese. Questa estate dirigerò il Pygmalion di Rameau al Drottningholms Slottsteater di Stoccolma (con la regia e danza del ballerino giapponese Saburo Teshigawara) e ne ho approfittato per rileggere e leggere “tutte” le fonti settecentesche su musica, danza etc. E’ impressionante come nelle descrizioni delle performance delle star dell’opera dell’epoca il fatto di saper ballare perfettamente e recitare in scena fosse “quasi” più importante del canto in sé. Cosa che pone agli interpreti moderni un problema grave perché in generale, fuori dal pop e rock, le cantanti non sono che raramente ballerine provette. Con la fortissima influenza che la Francia ebbe (insieme ma complementarmente all’Italia) su tutta Europa e specialmente sulle corti tedesche, il saper danzare divenne uno status symbol per qualsiasi persona che volesse affermarsi in società. In città tedesche come Dresda al tempo di Bach vi erano più insegnanti di danza francesi che birrai! Ciò detto e tenuto in mente, è ovvio che i grandi autori, come Bach stesso o Marais, hanno poi stilizzato le strutture ritmico-prosodiche delle varie danze creando a volte brani puramente strumentali e non intesi per la danza. Lo stesso succede in molti altri contesti culturali, come il flamenco, dove un “palo” cioè la struttura di una particolare danza (bulería, solea etc. può essere usata per danzare o in un secondo momento per “suonarci sopra”). La danza francese rimane comunque uno stile particolare, perché intrinsecamente legato al teatro e alla recitazione (almeno da Lully in poi)».
Per Lei come interprete, quando le suona, quanto è importante conoscere le forme delle danze danzate, i passi, le figure, che sono a monte del pezzo strumentale che hai sotto le dita?
«È importante. Fondamentale. Ho avuto la fortuna di lavorare con le sorelle Guilcher, eredi di una tradizione famigliare di danza francese e grandissime conoscitrici della danza barocca e, dal vivo, della danza tradizionale francese. Quello che ho imparato che ancor più che conoscere a menadito i passi conservati nei numerosi trattati di danza del ‘700 è importante capire la ritmica intrinseca della musica, che non appare nelle note scritte. Il ballerino danza se noi sappiamo suonare danzando e questo è un processo assai sottile e difficile da descrivere a parole. Perché quando un violinista classico suona noi ascoltiamo ma spesso non danziamo affatto e quando un violinista irlandese ci fa due note saltiamo sulla sedia? Vi è un rapporto intimo tra la meccanica dell’arco e lo scatenamento della danza in chi ascolta. Questo non si insegna nei conservatori, purtroppo».
La musica irlandese, a proposito, era al centro del concerto che, col suo Ensemble Il Suonar Parlante e la collaborazione di splendidi solisti, avete presentato alla scorsa edizione di MITO; quest’anno è la volta del Barocco gitano (lunedì 17 settembre, Tempio Valdese, ore 17), un programma per il quale entrano in gioco anche nuovi musicisti e lei è andato a cercare le tracce della musica fino a un posto dal nome complicato come Sepsiszentgyörgy.
«Sì, lì ho trovato un manoscritto particolarmente interessante che esemplifica un mondo musicale complesso e variegato, tracciato dai musicisti rom o tzigani, che per secoli hanno viaggiato in tutto l’est europeo portando con sé un modo di suonare e brani di generi, forme e provenienze diverse. E qui si trattava non solo di ritrovare le musiche, ma di scoprire come suonarle. Ci sono brani popolari e brani di compositori noti come Hasse, Vivaldi o Telemann, che quasi come un etnomusicologo ha trascritto molte melodie tradizionali dell’Europa orientale, aggiungendoci un accompagnamento armonico, spesso di una semplicità disarmante. Noi abbiamo estrapolato le melodie originali e le riproponiamo in una versione che forse somiglia di più a come Telemann stesso ebbe modo di ascoltarle suonate da gruppi «popolari». In altri casi, riprendendo un procedimento molto zigano, abbiamo preso musica «alta» e le abbiamo trattate con impertinenza… o forse con un rispetto ancor più profondo».
Qui si va al cuore di cosa si possa o debba intendere per «autenticità», un nodo su cui a tutt’oggi il dibattito è serrato, a volte aspro.
«Secondo me, l’equivoco più grande e continuo è confondere lo studio musicologico, necessario ed appassionante, di un linguaggio storico e la pratica artistica che invece, SE È ARTISTICA, si basa sull’intuizione artistica hic et nunc e cioè su un piano della conoscenza completamente differente ed in parte intraducibile al di fuori dell’atto artistico stesso. Ho la fortuna di occuparmi con passione, come direttore del Dipartimento di Musica Antica del Mozarteum, del primo aspetto (ricerca e insegnamento) e come interprete e musicista del secondo. Credo che si dovrebbe giudicare i musicisti per la musica e non con criteri appartenenti alla prima sfera. Con il Barocco gitano abbiamo voluto mostrare una via artisticamente percorribile: abbiamo trattato alcuni brani come facessimo un documentario, ossia una ricostruzione, ed altri come un film, ossia una creazione. Sono tutte vie non solo possibili ma necessarie, fuori da qualsiasi rivendicazione di un purismo che diventa atteggiamento sterile e non creativo, quindi fondamentalmente anti-culturale».
Gaia Varon