Quest’anno il maestro Gilberto Bosco compie 75 anni. Il suo nome, ben noto a chi s’interessa di musica contemporanea, suscita particolare affetto a Torino, dove sono molti i laureati del DAMS e i diplomati del Conservatorio che hanno seguito i suoi corsi di Teoria Musicale e di Composizione.
Per festeggiarlo, l’Associazione De Sono gli dedica il concerto Fantasie, che avrà luogo il 6 dicembre alle ore 20:30 presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino. Il programma vede affiancati pezzi recenti di Bosco a Fantasie di Franz Schubert, eseguiti da tre giovani interpreti: la violinista Misia Iannoni Sebastianini e i pianisti Alberto Pipitone Federico e Claudio Berra.
Maestro Bosco, la musica contemporanea ispira diffidenza e smarrimento in molti ascoltatori. Per avvicinare il pubblico a questo repertorio è sempre necessario offrire delle spiegazioni?
«Le spiegazioni servono perché è difficilissimo orientarsi dove non ci sono sentieri tracciati. Luigi Nono diceva che la musica “è il mare sul quale si va inventando, scoprendo la rotta”. Dobbiamo dunque indicare dove sono i punti cardinali, però, paradossalmente preferisco un programma di sala che non tiene ipnotizzato il pubblico. Per troppi anni, noi musicisti contemporanei abbiamo falsato l’ascolto con dei programmi di sala che dicevano cose meravigliose, complicatissime: poi il risultato era che molti pezzi erano molto meno interessanti dei programmi di sala. Le spiegazioni servono, ma preferirei che il pubblico ascoltasse la musica. D’altronde, la musica di Mahler, che io adoro, non ha bisogno di grandi programmi di sala».
Cosa può esprimere la musica e quali sono i suoi limiti?
«La musica “non esprime” in assoluto qualche cosa, e se io devo ordinare del caffè non posso che canticchiare quella canzone che faceva “Hernando tre caffè” perché non ho nessun altro sistema per dire con la musica che io voglio bere un caffè. La musica ha un’ambiguità di fondo: ci racconta delle emozioni, piuttosto che delle cose concrete. Credo che sia stato Mendelssohn ad affermare che la musica è troppo precisa per esprimere cose concrete. La musica in qualche modo ci deve emozionare, ci deve toccare, ci deve raccontare delle cose, anche se non è detto che racconti lo stesso a me e a un altro ascoltatore. Se il pubblico legge il programma di sala perché la musica non gli racconta niente, abbiamo commesso un errore. Per fortuna, dal 1980, dalla Sinfonia di Berio, da At first light di George Benjamin e da alcuni altri lavori, tra i quali vorrei che si citassero anche i miei -per ultimi, ma vorrei che fossero citati- io credo che qualche cosa sia successa e mi auguro che continui a succedere».
Lei faceva accenno al fatto che, nel panorama contemporaneo, non ci sono riferimenti stabili. Come può fare quindi un giovane compositore a trovare la sua strada?
«In questo momento, se io fossi un giovane compositore forse non saprei cosa fare, perché è difficilissimo orientarsi. All’apparenza, sembra che i giovani abbiano una strada più facile perché, in qualche modo, tutto è possibile; invece, questa situazione rende la strada più complicata. Mentre, fino a qualche anno fa, le alternative sembravano chiare -o stai di qua con la passata avanguardia, o tenti di dare delle spallate, come abbiamo tentato noi – oggi è tutto più difficile. Forse la mancanza di strade è la strada. Il risultato è che fra i giovani compositori alcuni scrivono cose interessantissime, altri cose che io, francamente, fatico a capire e seguire. Credo che l’unico punto di riferimento rimasto sia l’ascolto: bisognerebbe confrontarsi molto con l’ascolto. È molto più facile mettere giù delle analisi, delle formule, che spesso sono convincenti soltanto se ragioniamo nel chiuso delle nostre stanzette, che convincere l’ascoltatore. Bisogna avere il coraggio di ascoltare, di non essere accecati dalle analisi: se una battuta sembra Ravel, lasciamo che suoni come Ravel! Non è necessario fare delle grandi rivoluzioni. Temo che ci sia ancora una lunga strada da percorrere per uscire da una serie di divieti che erano lo schema della vecchia avanguardia».
A proposito di avanguardia, lei compì i suoi studi musicali a Torino e poi fece un’esperienza fondamentale frequentando i Ferienkurse di Darmstadt. A un certo punto però si pose il problema della direzionalità dello sviluppo musicale.
«Per me è importantissimo un problema che nella mia immaginazione chiamo confronto tra storia e memoria. La storia consiste in una successione lineare: per esempio, dopo la Quinta sinfonia di Beethoven c’è la Sesta, dopo la Quinta sinfonia di Mahler c’è la Sesta, ecc. La memoria è un’altra cosa. Per esempio, nella memoria dei compositori, degli appassionati di musica, dei musicisti, dopo il Pierrot Lunaire di Shönberg del 1912 può anche darsi che non ci sia spazio per nulla fino al Concerto per violino di Berg del 1935. Quindi, nella nostra memoria musicale, ci sono dei salti che segnano cosa è importante e cosa no. Invece, tutto il pensiero della passata avanguardia era basato su un concetto molto duro e molto assillante di storia: se non accettavi il pezzo successivo, non eri nulla. Non è vero! Nella musica ci sono dei salti; infatti, a un certo punto una serie di musicisti, fra cui il sottoscritto, Benjamin e altri nomi importantissimi, hanno deciso che non era così. Voglio dire che se ci sono dei pezzi che restano nella memoria, questi segnano la storia vera, quello che la musica è nel suo divenire: non c’è una specie di assolutismo, di rigidezza, di unidirezionalità. Se non si accetta il passaggio successivo vuol dire che magari c’è un’idea diversa del passaggio. In questo io, e non solo io, ho creduto fermamente».
Nello sviluppo di questa riflessione c’è stato qualche momento importante?
«Mi ricordo quando a Torino, nei primi anni Ottanta, fecero At first light di Benjamin: io rimasi folgorato perché avevo appena finito un pezzo che, in un certo senso, diceva le stesse cose. Benjamin traeva le sue idee da studi compiuti in Francia e altrove, io invece ci ero arrivato da solo e contro tutta una serie di altri musicisti dell’avanguardia dura e pura. Che cosa dicevamo? Che la musica è qualcosa di articolato. Mi ricordo un articolo straordinario di Massimo Mila degli anni Ottanta, dedicato a Luigi Nono, che aveva come titolo “Dove vai, Gigi?”; perché anche Nono a un certo punto, credo, si pose dei problemi del genere. “Dove vai?” voleva dire “Ma che cosa stai facendo? Forse anche tu stai incominciando ad avere dei dubbi?”. Al Conservatorio di Torino, su posizioni in parte simili, c’è stata una specie di sacca di resistenza contro una concezione troppo dura e troppo pura della vecchia avanguardia. Vorrei ricordare, ad esempio Daniele Bertotto, un compositore notevole e uno straordinario insegnante. Ma non è stato un caso isolato».
Nelle sue composizioni lei fa spesso riferimento ai lavori di altri autori. In Quaderno, uno dei due pezzi che saranno eseguiti nel concerto Fantasie, ci sono riferimenti di questo tipo?
«Devo fare una premessa: ci sono due musicisti dai quali ho imparato quasi tutto, uno è Arnold Schönberg e l’altro è Ludwig van Beethoven. Schönberg diceva che bisognava emancipare le dissonanze: ebbene, Quaderno cerca di emancipare le consonanze. Nel senso che le consonanze sono inserite in un contesto libero, privo di riferimenti a una tonalità precisa, e oscillano nello spazio. Il III movimento, invece, è una riflessione su Ravel e su Chopin. Entrambi hanno affrontato il problema di una nota ribattuta: per chi conosce bene la letteratura dell’Ottocento è il concetto della “goccia d’acqua”; Ravel lo ha utilizzato in alcuni suoi pezzi, fra cui Scarbo da Gaspard de la nuit. Io credo che questo rappresenti veramente la memoria contro la storia: non importa se la nota ribattuta è di Chopin, di Ravel, di Gilberto Bosco… Si tratta di un modo trasversale di vedere la storia. Ci tengo a dire però che non è indispensabile cogliere tutti i riferimenti storici che stanno dentro questo e altri pezzi: l’importante è ascoltare».
L’altro suo pezzo che verrà eseguito nel programma ideato dalla De Sono per omaggiarla è L’eco ritorna…
«L’eco ritorna, per violino e pianoforte, nasce come commissione di un pezzo d’obbligo per il Concorso di esecuzione violinistica “Rodolfo Lipizer”. Per questo motivo, nella composizione, ho inserito tutta una serie di “virtuosismi” per il violino, in modo da permettere agli esecutori di dimostrare il loro talento (cosa che hanno fatto!). D’altra parte, il pianoforte usa in modo estremamente sofisticato il pedale di risonanza e altri effetti di risonanza. Il risultato è un continuo gioco di echi tra il violino e il pianoforte. Sono sicuro che gli esecutori della De Sono realizzeranno tutte queste “diavolerie” perfettamente».
Completano il programma del 6 dicembre la Fantasia in fa minore per pianoforte a quattro mani e la Fantasia in Do maggiore per violino e pianoforte di Schubert. Qual è il suo rapporto con la musica di questo compositore?
«Come dicevo prima, io credo di aver imparato soprattutto da Schönberg e da Beethoven. Schubert invece è stato per me una dura e severa conquista: aveva un tale talento che è difficilissimo imparare qualche cosa da lui, infatti, è il contrario di un maestro, perché i maestri qualche volta sbagliano, ma Schubert mai. Mentre in Beethoven noi potremmo cambiare qualche battuta e dire “funzionerebbe anche in quest’altro modo”, in Schubert non è possibile: qualunque cosa abbia scritto è giusta e non c’è alternativa; basta sentire una sua sonata per pianoforte o la Fantasia per due pianoforti. È tutta la vita che cerco di imparare da lui e quindi ho proposto io alla De Sono di inserirlo nel programma. Anche perché così, almeno, se la mia musica sarà schiacciata, lo sarà da quella di un maestro di assoluta grandezza!»
Liana Püschel