La Sonata nei Secoli: un titolo impegnativo, considerando il ruolo che la Sonata ha avuto nella storia del pianoforte. Quali le ragioni di questa scelta?
«La Sonata si annovera tra i generi più significativi del repertorio pianistico, e nei secoli ha subito un considerevole processo evolutivo. È interessante, a mio avviso, vedere come i vari compositori hanno affrontato la forma e il genere. Partiamo da Scarlatti, le cui Sonate sono in forma binaria semplice, senza un vero e proprio sviluppo. Passiamo poi a Mozart, con una Sonata in tre movimenti in forme tradizionali, nella quale manca ironicamente un tempo in forma sonata. In Brahms, invece, abbiamo una Sonata virtuoso-romantica completamente sviluppata. Anche Fazil Say contribuisce alla nostra breve panoramica con Bodrum, brano per pianoforte solo che il compositore turco riutilizza e riarrangia come ultimo tempo in stile folkloristico nella sua Sonata per pianoforte e violoncello Four Cities».
Scarlatti, Mozart, Brahms, persino Say, ma manca Beethoven: perché?
«Nel compilare un programma, si devono necessariamente operare delle scelte, condizionate dal tempo a disposizione. In questo caso, tra Mozart e Beethoven ho preferito optare per il primo. Le Sonate di Beethoven, soprattutto quelle del medio ed ultimo periodo, rappresentano un momento compositivo sperimentalista e rivoluzionario, soprattutto nella forma. Ognuna di esse è un vero capolavoro sui generis. Anche nell’ambito delle sole trentadue Sonate, l’evoluzione del genere è così marcato che presentare solo una Sonata mi sarebbe sembrato riduttivo».
Tutti i compositori da lei scelti (Say incluso) sono stati e sono virtuosi della tastiera. C’è una relazione tra questo elemento è il suo essere pianista?
«Certamente ogni esecutore desidera affrontare e superare la sfida delle difficoltà tecniche che un brano virtuosistico presenta, ma la tecnica, in senso lato, è unicamente in funzione delle capacità espressive dell’esecutore, ed in accordo con gli intenti del compositore. Avere una buona tecnica è come avere un’ampia paletta di colori a disposizione, ma se il pittore non ha niente da esprimere (o disegnare), il presunto vantaggio è vano».
Virtuoso non basta. I brani che lei presenta richiedono doti interpretative specifiche. Come li ha scelti? Inoltre, ha un suo interesse per la filologia musicale?
«Ho sempre coltivato un grande interesse per la filologia musicale. Recentemente, ad esempio, ho esaminato con Robert Levin – uno dei massimi esperti del repertorio classico – copie del manoscritto olografo della Sonata di Mozart, ritrovato a Budapest solo qualche anno fa. Rispetto alla prima edizione, ci sono poche ma rilevanti differenze; la mia esecuzione seguirà le indicazioni del manoscritto».
Infine, la presenza di un brano attuale farebbe pensare a un suo interesse per la musica dei nostri giorni. È così?
«Assolutamente sì! Penso che il repertorio di un pianista debba spaziare tra grandi brani “classici,” brani di autori da riscoprire e riproporre (per esempio, Martucci e Sgambati), e brani del repertorio contemporaneo. Sono aperto a tutto, anche se generalmente tendo ad apprezzare meno musica eccessivamente logica e strutturalista, ma mi riservo il diritto di studiare e comprendere meglio l’estetica che vi sta dietro. In ogni caso, penso che l’obiettivo debba rimanere sempre quello di suscitare una riposta emotiva di qualche tipo da parte dell’ascoltatore. Ho molta simpatia anche per la musica di John Cage ispirata dal Buddismo Zen».
Fabrizio Festa