Una delle poche cose buone della deprecabile pandemia che ci ha rinchiusi in casa, è che siamo stati costretti, non solo in Italia ma anche nel resto del mondo, a riflettere su noi stessi. L’improvviso e inevitabile arresto della giostra sempre più turbinosa su cui eravamo seduti, e la conseguente fine della vita frenetica e della convulsa successione di eventi e incontri, ha costretto ciascuno di noi a fare un esame di coscienza, a riflettere sul valore delle cose, a chiarire in che direzione avremmo voluto andare una volta usciti dal tunnel.
Per questo il titolo della nuova edizione di MITO SettembreMusica, Futuri, indica una rinascita rivolta al domani, all’idea di rinnovamento, all’umanissimo sentimento della speranza. Dopo un’edizione all’insegna dell’incertezza e della prudenza, tornano i grandi concerti, e tornano le corazzate della musica, le grandi orchestre sinfoniche, ma con uno spirito diverso rispetto al passato.
Osserviamo, per esempio, i concerti sinfonici di Torino. Apre il festival l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da Fabio Luisi, uno dei maestri-pilastro su cui poggerà il lavoro della compagine nei prossimi anni. Il concerto d’apertura, il 9 settembre (Ritmi, presso l’Auditorium Rai alle ore 21), è segnato dalla presenza di Unsuk Chin, una delle voci più autorevoli della musica d’oggi. La compositrice coreana, trapiantata da molti anni a Berlino, presenta per la prima volta in Italia un brano recentissimo, scritto nel 2020 per celebrare l’anniversario di Beethoven, dal titolo Subito con forza, che rappresenta la prova vivente di quanto sia inutile e anacronistico pensare la musica per territorî geografici, per confini nazionali. Questo non ha niente a che spartire con la globalizzazione, che è tutt’altra storia, ma riguarda il fatto che il patrimonio umano è ormai a disposizione di tutti, e la musica di Mozart (con un magnifico solista come Francesco Piemontesi nel Concerto per pianoforte K. 503) e di Beethoven, che ascolteremo nella seconda parte, è in grado di dialogare con tutti.
Questo non significa appiattire la musica a uno standard uniforme, o eliminare le differenze. Al contrario, lo sviluppo della grande musica occidentale, paradossalmente, ha fatto venire a galla anche l’immenso patrimonio di musica popolare, nascosta nell’isolamento e nella finitezza delle civiltà contadine.
Sono stati i giovani compositori allevati nella lingua di Mozart e Beethoven, verso la fine dell’Ottocento, a cercare qualcosa di nuovo e di diverso, riscoprendo, e molte volte semplicemente scoprendo, le musiche contadine della loro terra. Da allora, la musica popolare è diventata sempre di più una linfa essenziale per la creatività contemporanea, come dimostrano ampiamente i lavori del giovane Ligeti, per esempio, per non parlare di quelli della nouvelle vague della musica cinese, come Zhou Long, nato a Beijing nel 1953 e rifugiato negli Stati Uniti dopo la Rivoluzione culturale.
Questi temi sono al centro del concerto del 19 settembre, (mpre all’Auditorium Rai, ore 21), con l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi diretta da Alpesh Chauhan, che in chiusura interpreta la Sinfonia “Dal nuovo mondo” di Antonín Dvořák. Malgrado le ironie di tanti critici “wasp”, che si stupivano di sentire i nativi americani e gli schiavi negri canticchiare motivi boemi, in quella Sinfonia c’è il manifesto di una nuova estetica del Novecento: ascoltate la strada, ascoltate quello che succede attorno a voi.
La musica, però, ci aiuta anche a riflettere. Qual è il rapporto tra la musica d’oggi e la tradizione? Il nuovo e l’antico possono convivere nel mondo attuale? Cosa dobbiamo fare con l’enorme patrimonio che hanno lasciato in eredità le generazioni precedenti? Questi temi, che sono infinitamente complessi e c’investono come mai prima d’ora grazie all’enorme sviluppo della tecnica, sono suscitati da un breve lavoro, una dozzina di minuti circa, di Magnus Lindberg, Aventures, scritto nel 2013 per celebrare trent’anni di attività di una celebre orchestra da camera del suo paese, la Finlandia. Un po’ per scherzo e un po’ sul serio, Lindberg ha pigiato in un fazzoletto di musica un’incredibile serie di citazioni musicali, da Mozart a Stravinskij passando per Beethoven, Berlioz, Sibelius e tanti altri, allo scopo sì di celebrare la storia dell’orchestra Avanti!, ma forse anche di suscitare una riflessione sul nostro rapporto con la tradizione.
Il direttore spagnolo Pablo Heras-Casado, per la prima volta alla guida dell’Orchestra del Teatro Regio il 25 settembre all’Auditorium Giovanni Agnelli, accosta Aventures di Lindberg al lavoro che forse meglio d’ogni altro rivela la nascente separazione tra antico e moderno nella letteratura sinfonica dell’Ottocento, la Prima Sinfonia di Johannes Brahms. In questo lavoro, infatti, Brahms riversa luci e ombre del rapporto con i suoi padri spirituali, Schumann e Beethoven, i sedimenti del controverso legame con Clara, le vertigini della conquista e le paure del fallimento.
Il mito di Icaro, forse, non è mai stato così attuale. L’invenzione più spettacolare di Dedalo, il trionfo della sua scienza e del suo ingegno, che si trasforma nel mezzo di distruzione del figlio: una storia esemplare che ci induce a riflettere anche sulla sconfitta come elemento imprescindibile delle nostre conquiste, quando troviamo la forza per rialzarci.
Icaro, in realtà, erano i compositori della generazione precedente a Brahms, una splendida schiera di artisti tanto luminosi da bruciare in breve tempo la fiamma che ardeva dentro di loro. Tranne Liszt, nessuno è arrivato a cinquant’anni. Chopin è morto a trentanove, Mendelssohn a trentotto, Schumann a quarantasei, dopo due anni di reclusione in clinica psichiatrica. Mendelssohn e Schumann volevano volare sulla forma sinfonica con le ali costruite da Beethoven ma non riuscivano a trovare il loro passo, il movimento giusto. Provavano e riprovavano, senza mai raggiungere un risultato completamente convincente. Mendelssohn, in particolare, che sembrava così toccato dalla grazia e sicuro di sé, era il più feroce critico di sé stesso, tanto da non reputare mai una sua Sinfonia degna di essere pubblicata. Gli amici più cari, a cominciare dalla sorella Fanny, lo scongiuravano di non toccare una nota della sua splendida Sinfonia Italiana, che per lui, invece, era un fallimento totale. Schumann era forse più autoindulgente, ma non si accontentava mai delle forme del passato. La sua musica doveva sempre cercare di andare più in alto, oltre l’ignoto, alla ricerca di una voce interiore perennemente sfuggente.
La Quarta Sinfonia, riscrittura integrale della sua inedita Seconda Sinfonia, è l’ultimo tentativo d’inseguire i fantasmi interiori che lo portavano sempre più lontano dalle Sinfonie di Beethoven. Il volo spettacolare di Mendelssohn e Schumann ha lasciato dietro di sé una lunga scia di epigoni ma nessun erede, nemmeno Brahms, che ha dovuto imboccare altre strade. Eppure la scintilla della loro impresa continua a emozionarci, e a mostrarci la speranza del futuro, come giustamente indica il concerto conclusivo del festival Mito, all’Auditorium Agnelli il 26 settembre, con l’Orchestra Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Chailly.
Oreste Bossini