A MITO l’amore folle della star del pianoforte Brad Mehldau

A 10 anni un insegnante di pianoforte lo spinse sulla strada della classica. A 13 arrivò il jazz. Ma per l’americano Brad Mehldau, principe della tastiera fra i più blasonati dell’ultimo trentennio, erede della gloriosa stirpe dei Keith Jarrett e degli Uri Caine, dei Bill Evans e dei Chick Corea, la musica non è mai stata una questione di confine fra generi. Artefice di un pianismo a tutto campo, Mehldau ha saputo costruirsi una carriera a parte: imprevedibile nell’approccio sonoro, eclettica per la vastità di ispirazione, baciata dal successo eppure arroccata nel suo divismo sofisticato e un po’ bizzoso.

Salito alla ribalta giovanissimo negli anni Novanta (i primi exploit arrivano nel quartetto del sassofonista Joshua Redman), il pianista di Jacksonville trova il suo baricentro, dopo un periodo oscuro di dipendenze, alla guida della sua formazione più rappresentativa, accompagnato dal contrabbassista Larry Grenadier e dai batteristi Jorge Rossy e Jeff Ballard (che sostituisce Rossy nel 2005). Con il suo Brad Mahldau Trio, consolida negli anni il repertorio per questo particolare ensemble (memorabili i cinque volumi della serie The Art of Trio, pubblicati fra il 1996 e il 2000), aprendolo verso sentieri inesplorati, alternando ai classici del songbook americano rivisitazioni di brani firmati da pesi massimi del rock come Radiohead, Nick Drake, Pink Floyd e Beatles. Scelte non proprio ortodosse, che tuttavia non gli impediscono di aggiudicarsi i riconoscimenti più ambiti, dal Grammy Award per l’album Finding Gabriel nel 2020 (cinque le nominations dal 1997) all’Echo Jazz nel 2013, dal Premio Edison nel 2008 alle sei incoronazioni come “Pianista dell’anno” nella classifica di Down Beat fra il 1999 e il 2011.

La formazione classica torna in primo piano quando Mehldau, in veste di compositore e solista, presenta concerti e dischi che trascendono l’approccio jazz mainstream, rivelando una continua tensione tra invenzione e forma. Lo confermano progetti come le raccolte di arie per le cantanti liriche Renée Fleming (2005) e Anne Sofie von Otter (2010), le Variations on a Melancholy Theme (2013) con l’Orpheus Chamber Orchestra ispirate alle armonie tardoromantiche brahmsiane e Three Pieces After Bach (2015), rivisitazione moderna del Clavicembalo ben temperato attorno al quale Mehldau costruisce un originale percorso improvvisativo.

Il suo ultimo lavoro, The Folly of Desire (2019), coprodotto da Elbphilharmonie, Wigmore Hall, Stanford Live e Carnegie Hall, approderà in prima italiana a MITO SettembreMusica giovedì 9 a Milano (Teatro Dal Verme, ore 21) e venerdì 10 settembre a Torino (Auditorium Rai, ore 21). Un ciclo di Lieder su celebri poesie di Blake, Yeats, Shakespeare, Brecht, Goethe, Auden e E.E. Cummings, caratterizzati da una omogenea fusione tra canto e parola, che Mehldau interpreterà in duo con il tenore inglese Ian Bostridge, fuoriclasse del repertorio liederistico nonché dedicatario dell’opera.

Le undici liriche esplorano le sfumature più cupe ed estreme del desiderio d’amore, non quello romantico e disilluso dei Dichterliebe di Schumann (protagonisti della seconda metà del concerto), i cui toni dolorosi sono attraversati da una ironia pungente e amara, ma la passione intesa come sete carnale, ossessione, persino violenza, che si fa strada più facilmente verso archetipi angelicati. «Qual è la natura di quella sete? Può la lussuria essere una sorta di sacro impulso? – si chiede Mehldau, rifiutando polemicamente qualunque condanna ideologica – Vorremmo che Dio ci mostrasse la nostra stessa follia, eppure una divisione così netta fra l’anima e la carne può trasformarsi a sua volta in cecità spirituale e farci credere ciò che vogliamo credere».

 

Valentina Crosetto