Maestro Arciuli, il suo recital mette Debussy – definito il “pittore dei suoni”, uno dei più grandi innovatori tra il XIX e il XX secolo – in dialogo con tre autori contemporanei statunitensi: John Corigliano (New York, 1938), Martin Bresnick (New York, 1946), Frederic Rzewski (Westfield, 1938). Quali sono le qualità in gioco in questo dialogo?
«Nel primo brano che propongo spicca una qualità visionaria: la Fantasia on an Ostinato di John Corigliano (scritta nel 1985) è quasi un’improvvisazione sul malinconico Allegretto del secondo movimento della Settima di Beethoven [ben riconoscibile al suo interno, n.d.r.]. Non vi è traccia di particolare vitalismo, piuttosto è un dialogo onirico con il trascendente, dove il taglio minimalista della scrittura sposa un clima emozionale profondo. A partire da questo nasce il dialogo con gli altri autori».
Di Debussy suonerà quattro Preludi. Il primo, Voiles, già nel titolo reca elementi di ambiguità (“vele” o “veli”). Come emerge il dato emotivo?
«Per me l’emozione in Debussy è potentissima, ma al tempo stesso come sospesa, mai diretta, e sempre si accompagna a una scrittura sofisticata. Voiles, il n. 2 dei Préludes, è un brano dai colori meravigliosi, tutti concentrati su tinte pastello, tenui e delicate. È una composizione in cui la scala esatonale – poche altre volte usata con tanto rigore – poggia su un pedale di si bemolle, una nota-pedale che crea quasi una stagnazione armonica.
Poi eseguo Des pas sur la neige (Passi sulla neve), il Preludio n. 6, che invece si basa su un ostinato ritmico. Lento, desolato, in un certo senso si avverte il gelo del paesaggio invernale, presenta armonie incredibili, che a ben guardare preludono al jazz, e un’economia di linee e di colori che ci ricordano un disegno a matita o un’acquaforte».
Da queste pitture d’ambiente, così suggestive eppure così misurate, dove ci conduce?
«Vi porto a un brano che Martin Bresnick mi ha dedicato nel 2012: Ishi’s Song, il canto di Ishi, uno tra gli ultimi nativi americani Yahi-Yana – popolo che fu decimato nel corso del diciannovesimo secolo – a conservare usi e tradizioni ormai dismesse, e fonte di ispirazione anche per altri artisti. Qui l’economia di mezzi è decisamente accentuata: il pezzo si basa su tre sole note. Ossessive, ipnotiche, eppure continuamente cangianti. Non variano in senso stretto, ma si arricchiscono di colori. Tutto è vita, naturalmente, tutto scorre, anche qui dove la variazione continua in uno spazio che resta immoto».
Nel suo itinerario torniamo a Debussy. Cosa accade di nuovo in questo secondo incontro?
«Ci sono molti più colori e tinte più violente in Ce qu’a vu le vent d’ouest (Ciò che ha visto il vento dell’ovest), il Preludio n. 7 ispirato a una storia narrata nel Giardino del Paradiso di Andersen. Questa pagina però non ci proietta in alcuna dimensione di realtà, ma ancora in una pura suggestione, un’evocazione della memoria, come un vento capace di conservare, dentro di sé, il mistero di vite e di tempi passati.
Poi La cathédrale engloutie (La cattedrale sommersa), il n. 10, è il racconto misterioso e arcano di qualcosa di inesprimibile, forse di inesistente, di irreale, perso nella leggenda della città bretone di Ys inabissata nell’oceano con la sua cattedrale. Il ritmo qui – come nel brano precedente – si sfarina, diventando colore, fino al punto che tra ritmo, melodia e armonia non si trova più una differenza».
Infine, ci propone il n. 4 dai Four Piano Pieces di Martin Rzewski. Che cosa si nasconde in questo brano d’aspetto sinistro?
«È una composizione del 1977, a cui sono molto legato, e che sancisce una forte amicizia con il compositore. Nasce e finisce in un indistinto magma di note ripetute che vaga per la tastiera, come se arrivasse dal nulla e al nulla tornasse. Ma a un certo punto accade qualcosa: nel corso di questo flusso si manifesta, come un fantasma, un canto indio d’origine sudamericana, un canto di liberazione, e anche questo poi scompare, avvolto dal mistero della notte».
Monica Luccisano