Negli ultimi anni si è distinto come didatta di assoluto valore, da Monopoli a Santa Cecilia, seguendo l’ascesa internazionale dei suoi allievi più talentuosi, da Viviana Lasaracina a Beatrice Rana. Ma Benedetto Lupo è innanzitutto pianista di prim’ordine, «dotato di un tocco straordinariamente raffinato e di uno stupendo controllo del suono». Lanciato sulla scena internazionale dalla medaglia di bronzo al Concorso Van Cliburn nel 1989, il musicista barese collabora con le più importanti orchestre europee e americane, vanta un’ampia discografia ed è ospite regolare di sale come la Wigmore Hall di Londra, la Philharmonie di Berlino e il Lincoln Center di New York. Al Festival MITO SettembreMusica debutta in recital solistico lunedì 7 settembre a Milano (Teatro Dal Verme, ore 21) e martedì 8 settembre a Torino (Conservatorio Giuseppe Verdi, ore 20 e 22.30).
Maestro, quanto è cambiata la sua vita da concertista e docente ai tempi del Covid?
«La clausura forzata imposta dalla pandemia ha fatto saltare tanti bellissimi concerti che tenteremo di recuperare. Passato lo sgomento iniziale, tuttavia, ho scoperto nello studio una terapia miracolosa contro l’isolamento e mi sono dedicato alla didattica a distanza. Confrontarsi con gli allievi è stato laborioso, perché la qualità delle lezioni on-line non fornisce risultati paragonabili all’insegnamento tradizionale, ma a suo modo stimolante. Peccato non poter ricominciare i corsi in Accademia prima di settembre».
A luglio, finalmente, è tornato alla musica dal vivo con il Terzo concerto di Beethoven al fianco dell’Orchestra Verdi di Milano…
«È stata un’emozione unica tornare a suonare insieme a un’orchestra davanti al pubblico. Inizialmente, ero preoccupato dalle reazioni – nonostante l’organico ridotto, la distanza sul palcoscenico non è facile da gestire –, poi è prevalso l’entusiasmo, la gioia di essere lì a condividere con noi interpreti un momento di pura bellezza».
Il recital che proporrà a MITO è diviso fra le inquietudini del boemo Janáček e la prima maniera del russo Skrjabin. Come nasce questo programma?
«Alla base delle mie scelte c’è sempre un innamoramento. Quelli di Janáček e Skrjabin sono linguaggi totalmente differenti, ma che condividono una dimensione spirituale dell’esistenza in sintonia con il tema della prossima edizione di MITO. La Sonata 1.X.1905, che Janáček dedica a un operaio morto durante una manifestazione in favore dell’apertura di un’università ceca, condensa sensazioni e pensieri legati all’idea della perdita. Un altro evento luttuoso – la scomparsa a vent’anni della figlia Olga, nel 1903 – sottende la raccolta Sul sentiero di rovi. Avrei voluto proporre l’intero ciclo, ma la necessità di mantenermi in una durata definita mi ha costretto a scegliere i primi due numeri. Qui, la sincerità, l’assoluta mancanza di filtri tipica del suo fraseggio irregolare e personalissimo, c’è tutta: né la gioia né la tristezza sono troppo forti in questo album intimo della memoria. Viceversa, con i 24 Preludi op. 11 ispirati al modello chopiniano, un compositore dall’ego smisurato come Skrjabin colleziona schizzi musicali dei suoi viaggi che sorprendono per modernità, aggressività e irrequietezza. Dal pianoforte l’autore russo sapeva tirar fuori colori unici, che nessun ascoltatore associava al timbro tradizionale dello strumento».
Che grado di difficoltà esecutiva hanno questi pezzi brevi, che si estinguono non appena prendono forma?
«La difficoltà risiede nell’assenza dell’impalcatura narrativa propria delle grandi forme: bisogna saper calibrare con destrezza le connessioni, i silenzi e le rotture fra cellule musicali ridotte all’essenziale. Per me è una sorta di terapia, che mi allontana dal frequentare troppo spesso i concerti beethoveniani o brahmsiani. Definirei questa scrittura per pianoforte fatta di brevi accenni, di emozioni trattenute o incontrollate, un sismografo in ascolto dell’anima».
Valentina Crosetto