La musica da camera per parlare cuore a cuore.
Dal Beethoven più intimo ad una visionaria Norvegia

Nell’oceanico programma di MITO Settembre Musica si rintracciano delle rotte secondarie e alcuni luoghi poco segnati dalle mappe. Una delle rotte apparentemente meno visibili, per esempio, è l’omaggio a Beethoven, celebrato nell’anno dell’anniversario in maniera discreta con una serie di concerti da camera. Oltre al pianoforte, infatti, ci sono alcuni incontri col Beethoven meno proteso prometeicamente ad arringare i ‘Millionen’, ma più modestamente ansioso di rompere le catene della solitudine e dell’isolamento e di parlare a una ristretta cerchia di persone in grado di amare e di soffrire con lui.

Una giornata decisamente interessante è l’8 settembre, con due concerti che presentano vari aspetti della personalità di Beethoven. Il Trio Debussy (Conservatorio, ore 16) interpreta il primo dei due Trii op. 70, conosciuto con il soprannome “degli Spiriti”. Il nomignolo deriva dal tempo lento, Largo assai ed espressivo, in cui l’allievo e futuro editore Carl Czerny ravvisava delle corrispondenze con la scena del fantasma di Amleto nell’omonima tragedia di Shakespeare. Altri commentatori mettono in luce delle somiglianze con gli abbozzi musicali per un Macbeth che Beethoven studiava nel periodo in cui componeva il Trio. La contessa Erdödy, alla quale sono dedicati i due Trii dell’op. 70, non doveva essere estranea alle tumultuose passioni che scuotono la scrittura dei due lavori, soprattutto del primo. Una che conosceva bene la potenza dell’amore, e anche i suoi lati oscuri, era Clara Schumann, che in un momento particolarmente difficile della vita coniugale scrive il suo primo lavoro comprendente altri strumenti oltre al pianoforte. Robert è malato, lei stessa ha perso un figlio che portava in grembo, il bilancio familiare non regge. La forte e coraggiosa Clara prende in mano la situazione e riprende l’attività concertistica, portando con sé il marito in Norvegia nella speranza che un cambiamento d’aria giovi alla sua salute. Trova anche il tempo di comporre il Trio, che avrà una decisiva influenza su quello successivo di Schumann.

Sempre l’8 settembre (Teatro Monterosa, ore 21) il mandolinista Raffaele La Ragione e il pianista Giacomo Ferrari mettono in luce un aspetto poco noto ma non trascurabile di Beethoven. Il mandolino, infatti, ha avuto un posto nel mondo di Beethoven, che possedeva anche uno strumento milanese sul quale probabilmente ha scritto la manciata di lavori sopravvissuti e suonati nel concerto. Alla fine del Settecento, il mandolino era uno strumento molto popolare tra la nobiltà viennese e praghese. A Praga, nel 1796, Beethoven fu accolto in casa del conte Clam Gallas, la cui moglie, nata Clary, era una discreta suonatrice di mandolino. Per la contessa Beethoven scrisse probabilmente alcuni lavori, ma soprattutto la dedica della grande aria da concerto Ah perfido. Inoltre, nei primi anni viennesi Beethoven strinse una fraterna amicizia con Wenzel Krumpholz, violinista del Teatro di corte e virtuoso di mandolino. I quattro lavori rimasti per lo strumento mostrano un lato più leggero del Beethoven settecentesco, capace comunque di prendere sul serio e con grande precisione tecnica la scrittura per uno strumento d’intrattenimento qual era il mandolino.

Il Quartetto Nous, infine, il 9 settembre (Conservatorio, ore 16), affronta il Beethoven ormai distaccato, al di sopra del mondo, degli ultimi Quartetti, con il lavoro più intimo della serie, il Quartetto in la minore op. 132. È molto sottile e affascinante l’idea di accostare questo enorme respiro dell’anima al primo Quartetto di Mozart, scritto nella famosa locanda di Lodi. Il Mozart bambino, nella sua giocosa innocenza, tende la mano all’artista veterano, coperto di ferite rimarginate a fatica dalla musica più visionaria e consolatoria che si possa immaginare per un quartetto d’archi.

Per completare il panorama della musica da camera, MITO tocca anche le remote coste della Norvegia, dove gli antichi racconti si tramandano dall’età dei Vichinghi e dove il regno dei morti si è sempre mescolato, senza badare troppo alle barriere, al mondo dei vivi. L’Ensemble Brú, dedito tanto alla musica antica quanto alle tradizioni etniche, riscopre un’antica ballata norvegese del tardo Medioevo che racconta di un sogno lungo quanto il periodo simbolico che va da Natale all’Epifania, un viaggio nell’aldilà per ispirare la carità e la compassione a un popolo di recente cristianizzazione. Il visionario poema Draumkvedet ha fornito lo spunto per vari lavori di musicisti norvegesi, dall’Ottocento ai nostri giorni, ma l’operazione di Brú è più ambiziosa, perché cerca di recuperare uno sfondo musicale plausibile per un testo così lontano nel tempo e avvolto nel mistero della storia. Nel concerto del 14 settembre (Conservatorio, ore 16) gli arrangiamenti e le improvvisazioni di Khrisna Nagaraja, che impugna anche il violino tradizionale norvegese, l’hardingfele, e dell’ensemble tenteranno di ricostruire l’immagine sonora di un mondo sopravvissuto in maniera frammentaria e silenziosa.

Oreste Bossini