Il titolo del concerto, Mitteleuropa, letteralmente Europa centrale, incarna alla perfezione l’intreccio di geografie fisiche e immaginarie che caratterizza la programmazione dell’edizione 2019 di MITO: il termine si diffuse a partire da un testo di geopolitica del 1915 in cui si auspicava un’egemonia politica della Germania su tutta l’area in cui era diffusa la lingua tedesca, ma arrivò presto a indicare, più che i confini fisici, lo spazio ideale dell’ormai tramontato impero asburgico in cui convivevano una molteplicità di lingue, idee, cultura, stili di vita, etnie. In quest’accezione vagamente nostalgica, la Mitteleuropa è dunque un luogo un po’ mitico di compresenza felice e costante ibridazione; in realtà, nella vita politica e sociale non tutto era così idilliaco, ma nelle arti gli scambi erano effettivamente continui e anche un compositore profondamente tedesco come Johannes Brahms pescava con naturalezza in bacini musicali diversi da quelli squisitamente germanici.
Uno di essi era quello in cui coesistevano, confondendosi, una tradizione magiara e una tzigana, quest’ultima più nota e diffusa tanto da essere spesso identificata tout court come musica ungherese. Nel 1871, Brahms pubblicò dieci Danze ungheresi senza numero d’opera, a riprova di come le considerasse non proprie composizioni originali quanto arrangiamenti di musiche di tradizione; ciò non bastò a evitargli aspre critiche da coloro che se ne ritenevano a miglior diritto depositari: il violinista Eduard Reményi gli rimproverò di «essersi appropriato di un patrimonio spirituale dei musicisti ungheresi» e il compositore Béla Kéler lo accusò di aver usato una sua czárdás, pubblicandola come Danza n. 5. Diplomaticamente, Brahms gli replicò che non c’è «miglior complimento per un compositore che avere la sua musica cantata in un villaggio da un popolano»: lì, sostenne Brahms, lui l’aveva sentita, prendendola per autentica musica tradizionale.
Un caso speculare di erronea attribuzione riguarda un’altra composizione brahmsiana, le Variazioni su un tema di Haydn op. 56, composte nella pace della campagna fuori Monaco ed eseguite per la prima volta nel 1873 a Vienna, dove il compositore all’epoca risiedeva. Era stato un amico musicologo e biografo di Haydn, Carl Ferdinand Pohl, a far conoscere a Brahms un Divertimento per fiati che egli riteneva di Haydn e che successivamente è stato invece attribuito al suo allievo Ignaz Pleyel; il tema che Brahms ne trasse e sul quale costruì le sue Variazioni, un semplice corale intitolato a Sant’Antonio, proviene tuttavia da un Divertimento precedente, il quale forse però lo riprendeva a sua volta da una fonte più antica.
Aldilà degli abbagli sulle sue origini, il tema offrì a Brahms un materiale eccellente per un’esplorazione sofisticata e sapiente della scrittura orchestrale che l’autore andava maturando: la sua Prima sinfonia all’epoca era ancora in lavorazione, la Quarta arriverà una dozzina d’anni più tardi e «in essa – commenta l’autorevole biografo brahmsiano Claude Rostand – ritroviamo il Brahms più autentico, il Brahms incantato dalle pianure della Bassa Sassonia, dalle sue lande grigie, dai cieli bassi, il Brahms che si compiace di quegli ambienti dove tutto è ovattato e che vengono meravigliosamente evocati dall’orchestrazione brahmsiana».
Gaia Varon