La pandemia e tutto ciò che ne è conseguito in termini di organizzazione musicale ha avuto il merito, per quanto involontario, di aver riportato in primo piano la musica da camera: formazioni ridotte, pochi (e distanziati) musicisti sul palco e quel dialogare intimo e raccolto che è la cifra stessa di questa musica.
Qualcuno deve averci provato gusto e allora ecco brani, originariamente concepiti per orchestra, riproposti “a parti reali”: e dunque non la fila dei primi violini, quella dei secondi, poi le viole e i celli ma un solo strumento per parte, ossia la compagine degli archi ridotta a quartetto, con un eventuale contrabbasso a rinforzare il violoncello. E naturalmente i fiati, che nel Concerto K 414 per pianoforte di Mozart sono una coppia di oboi e una di corni. Tutto ciò consentirà, nell’interpretazione dei Cameristi della Scala con Filippo Gorini al pianoforte (10 settembre, Auditorium del grattacielo Intesa Sanpaolo, ore 19), di cogliere ancora meglio le raffinate geometrie e i rapporti timbrici di cui è intessuto questo Concerto che, al pari dei coevi K. 413 e K. 415, è «una via di mezzo tra il troppo difficile e il troppo facile; brillanti e piacevoli all’udito senza cadere nella vuotaggine». Lo scriveva Mozart al padre Leopold, aggiungendo che «anche i conoscitori possono riceverne una soddisfazione, ma in modo che i non conoscitori debbano essere soddisfatti, senza sapere perché».
Un secolo e poco più separa il Concerto K 414 di Mozart dal Souvenir de Florence di Čajkovskij per sestetto d’archi, ideato a margine dei diversi soggiorni del musicista nella città toscana, il primo dei quali propiziato dalla facoltosa mecenate del compositore, Nadežda von Meck. Un brano felice nella sua invenzione melodica, impregnato dei ricordi di tanta bellezza, su uno sfondo che resta comunque, immancabilmente, quello di un’anima russa. Unica ombra, il rammarico di Čajkovskij di non poter condividere con la sua benefattrice l’entusiasmo per Mozart, che percorre anche queste pagine. «Perché lei non ama Mozart? – chiedeva Čajkovskij alla von Meck in una lettera del 1878 –. La sua musica da camera colpisce per la purezza e la grazia della forma, così come per la sorprendente bellezza della condotta delle singole parti». Una dichiarazione d’amore per la musica di Mozart che è, al contempo, un ideale di bellezza che Čajkovskij inseguì per tutta la vita.
Due “Incompiute” perfettamente compiute compongono il programma dei Pomeriggi Musicali diretti da James Feddeck nel concerto intitolato Il tempo di Schudert (11 settembre, Auditorium del Lingotto alle ore 21). La compiutezza dell’Incompiuta schubertiana – scriveva Sergio Sablich giocando con le parole – è una sorta di luogo comune retorico privo di riscontri attendibili, dal momento che il progetto originario comprendeva un successivo Scherzo, e dunque certamente anche un finale. Casomai, continuava l’illustre studioso, dovremmo interrogarci sul perché i due movimenti di sinfonia ci diano questa percezione di compiutezza. E la risposta è che i due movimenti si completano nello sdoppiamento tra un destino terreno di Weltschmerz – il “dolore del mondo” del primo movimento in si minore, tonalità che in Schubert si associa a sentimenti di introspezione e di morte – e una visione ultraterrena di pace cosmica, rappresentata dal luminoso mi maggiore del secondo movimento.
Circa un secolo e mezzo dopo, Luciano Berio, vincendo non poche perplessità, decideva di mettere mano agli schizzi “di notevole complessità e di grande bellezza” di una Decima sinfonia schubertiana, testimonianza ulteriore «delle nuove strade, non più beethoveniane, che lo Schubert delle sinfonie stava già percorrendo». Di qui la decisione di adottare lo stesso organico orchestrale dell’Incompiuta per restaurare (restaurare, non ricostruire, precisa Berio) quegli scarni appunti e dare loro vita. Un po’ come si fa nei cosiddetti restauri “non competitivi”, quando negli interstizi di un affresco lacunoso si inserisce cemento o intonaco nudo. Qui, il tessuto musicale tra uno schizzo e l’altro, segnalato ogni volta dal suono della celesta, è ottenuto riplasmando reminiscenze dell’ultimo Schubert. Non per imitarlo o completarlo “à la manière de”, ma per farne risaltare meglio il pensiero originale. E Rendering risuona di smagliante compiutezza, come ben sanno gli ascoltatori di Radio3, che ha adottato Rendering come “logo” musicale.
Ancora una sinfonia di Schubert, la Quinta, la più cameristica e mozartiana delle sue sinfonie, sta al centro del concerto dell’Orchestra Filarmonica di Torino, diretta da Giampaolo Pretto (24 settembre, Conservatorio, ore 19 e 21,30). Apre la serata la seduttiva Farewell to Stromness (1980) in versione per orchestra d’archi, uno dei brani che all’inizio degli Anni Ottanta segnarono la decisa svolta dell’inglese Maxwell Davies in direzione di una maggiore comunicabilità, destando non poche critiche in colleghi rimasti su posizioni più radicali. Conclude il programma la Serenata in la maggiore op. 16 di un Brahms venticinquenne, all’epoca direttore d’orchestra, pianista e insegnante della principessa di Lippe-Detmold (siamo nel 1858). Un periodo sereno («Ero di ottimo umore a Detmold – scriveva Brahms all’amico violinista Joachim –. Di rado ho composto con tanto diletto») che vide la nascita, tra le altre pagine, della Serenata in la maggiore op. 16, dove ascoltiamo un Brahms che sta prendendo confidenza con la scrittura per orchestra, e che, nella scelta di impiegare gli archi senza violini, anticipa quella predilezione per il registro centrale e per le atmosfere morbide e intimistiche che rimarrà costante della sua produzione matura.
Nicola Pedone