Con Giampaolo Pretto nelle stanze di OFT

La prima domanda è quasi d’obbligo: come e perché si passa dal flauto, e da primo flauto, al podio del direttore d’orchestra?
«Il come è stato graduale e naturale: da docente dell’Orchestra Giovanile Italiana in vent’anni ho preparato centinaia di ragazzi ad eseguire il repertorio sinfonico più vasto, basandomi da un lato sulla mia lunga esperienza d’orchestra e dall’altro su un diploma di composizione e vari studi di direzione. Per me è stata un’insostituibile palestra. Il perché: la mia esigenza di vivere la musica da tutte le prospettive possibili».

Considerando appunto l’esperienza come professore d’orchestra, che rapporto riesce a stabilire con chi adesso si trova difronte, e non più al suo fianco?
«Il zusammen musizieren, come felicemente lo chiamava Claudio Abbado, a mio avviso si applica a tutte le geometrie di rapporto possibili. Spesso mi trovo a dirigere colleghi che stimo enormemente e al cui fianco mi trovo il giorno dopo: è la lealtà condivisa verso il comune obiettivo musicale a entrare in gioco. L’assoluto rispetto verso la più profonda preparazione di conseguenza per me è imperativo. Diversamente non proverei nemmeno a salire sul podio».

Schubert e Mendelssohn in programma: quali le ragioni di questa scelta, giocata peraltro su due ouverture?
«Abbiamo disegnato la stagione di OFT, quest’anno, ambientandola nelle stanze di una casa. Il primo concerto è, comprensibilmente, l’ingresso: da qui l’idea di iniziarlo con ben due Ouverture, come volendo aprire le porte alla stagione. La prima, quella in stile italiano di Schubert in do maggiore, a mio parere troppo poco eseguita in relazione al suo valore, mi pare il delicato sogno di un viennese che pensa a un’italianità diffusa sul materiale tematico. Le Ebridi mendelssohniane, molto più eseguite, si connettono nell’evocazione di un nord scuro e tempestoso, alla sinfonia detta Scozzese, che personalmente prediligo tra tutte. Abbiamo inseguito la cifra dello spirito romantico, mutevole e imprevedibile come il meteo nordeuropeo. Dalla fragile levità malinconica di uno Schubert che tenta una solarità che non gli è propria, alla densa drammaticità generata da un Mendelssohn che spesso al contrario si connota come apollineo e sereno, mi pare che in questo programma si assista a una felice convergenza di opposti. Come se, in questo ingresso, come spesso capita, tenessimo appesi un panama che ci protegga dal sole e l’ombrello che ci ripari dal diluvio».

Fabrizio Festa