Gianluca Cascioli, compositore, pianista e direttore d’orchestra, si esibirà con l’Orchestra Filarmonica di Torino per il concerto di chiusura della stagione 2021, intitolato Orange. L’appuntamento di martedì 8 giugno al Conservatorio «G. Verdi» alle ore 21 sarà preceduto da una prova generale, aperta al pubblico, al Teatro Vittoria il 7 giugno alle 18,30. Cascioli si presenterà in triplice veste: prima eseguendo il suo Trio n.2 per violino, violoncello e pianoforte, vincitore del Concorso Agnello 2015 (in giuria, fra gli altri, Ennio Morricone), poi da pianista e direttore, il Concerto n. 13 in do maggiore K. 415 (nella versione per pianoforte e orchestra d’archi) e la Sinfonia n. 29 in la maggiore K. 201 di Wolfgang Amadeus Mozart, al quale aveva già dedicato un disco monografico per la Deutsche Grammophon nel 2014 con alcune Sonate per pianoforte.
La ricercatezza dei dettagli, lo studio attento delle partiture e la vena creativa nella composizione hanno reso Cascioli uno dei musicisti più raffinati e apprezzati degli ultimi anni.
Maestro Cascioli, il programma del concerto si apre con il suo Trio n.2 per violino, violoncello e pianoforte. Che storia c’è dietro questo brano?
«Si tratta del brano vincitore del Concorso di composizione Agnello 2015: è stato eseguito molte volte (in modo meraviglioso) dal Trio di Parma ed è edito da Curci. Il tratto principale del Trio n.2 è quello che il mio insegnante di composizione Alberto Colla – cui è dedicato– chiama ipertematismo: proporre cioè un elevato numero di idee musicali contrastanti presentate in rapida febbrile successione, senza svilupparle. Le composizioni recenti di Colla hanno questa caratteristica (soprattutto il Notturno “Mosarc” per pianoforte) e mi hanno molto influenzato».
Volendo cercare un punto di riferimento nel passato, il primo che viene in mente è Stravinskij…
«Esatto! È una scrittura a pannelli, come avviene spesso anche in Donatoni. Però nell’ipertematismo ogni pannello è il più possibile differente dall’altro e può durare anche solo pochi secondi. Può sembrare una procedura quasi schizofrenica, ma l’ascoltatore moderno è allenato dagli input tecnologici ad una rapidità di pensiero e duttilità di reazione estremamente elevati, in astinenza continua di stimoli. Il mio Trio si avvicina dunque per certi versi alla sintesi weberniana, ma più nella forma che nello stile; l’unica cosa che si ripete è il tema iniziale, inserito anche alla fine (a mo’ di corale) per dare un senso di unità al brano».
Il programma è completato da Mozart: qual è il suo rapporto con questo compositore?
«Lo adoro. Trovo ammirevole in Mozart la sua capacità di coniugare facilità di ascolto e complessità della struttura musicale (complessità che spesso non si avverte quasi grazie all’immediatezza del suo stile). Penso che oggi servirebbe davvero un compositore così, che non rifiuti le esperienze attraverso cui è passata la musica contemporanea (anche le più difficili all’ascolto), ma che sia in grado di rielaborarle in una sintesi trasparente, godibile anche dai non musicisti. Si tratta cioé di conciliare tradizione e innovazione, complessità e fruibilità; già Ferruccio Busoni ne parlò nell’estetica della sua Junge Klassizität».
Forse anche già Richard Strauss?
«Dobbiamo ritornare allo stile mozartiano» disse Strauss una volta e Busoni gli rispose sarcastico: «Quanto tempo Le è servito per capirlo, Dr. Strauss» (aneddoto citato da Luening). Ritornare a Mozart o, in senso lato, alla profondità nascosta sotto l’apparente leggerezza è un approccio che spaventa molti compositori: celare parzialmente la tecnica per apparire più “semplici”, più diretti. Solo un genio può farlo senza cadere nella banalità».
Torniamo anche noi a Mozart: come mai il Concerto n. 13 in do maggiore K 415 è nella versione per pianoforte e orchestra d’archi?
«Abbiamo dovuto snellire l’organico per questioni di sicurezza sanitaria, ma in realtà lo stesso Mozart aveva scritto che la parte orchestrale poteva essere eseguita anche “a quattro”: quindi è lecito persino impiegare un quartetto d’archi, tuttavia abbiamo preferito un’orchestra d’archi per bilanciare meglio la sonorità molto ricca del pianoforte moderno».
Al Concerto segue la Sinfonia n. 29 in la maggiore K 201, una delle composizioni giovanili di Mozart più amate. A cosa si deve questo abbinamento?
«Sono due composizioni che ho già studiato, suonato e diretto; la loro durata si adatta bene al programma di una serata. Sebbene non ci presentino Mozart nel pieno della sua maturità artistica, vediamo già sorgere una spiccata originalità; sono brani molto affascinanti che non perderanno mai la loro freschezza».
Può farci qualche esempio di questa originalità?
«Posso citare il secondo movimento della Sinfonia, l’Andante: una musica notturna, molto delicata, con i violini in sordina che gradatamente si trasforma in una marcia militare! Credo che ai contemporanei di Mozart abbia suscitato un certo stupore. Oppure il finale del Concerto: un tema che sembra essere una via di mezzo tra un valzer e una giga, dal piglio popolaresco e trascinante messo in diretto contrasto con un’Aria dal carattere mesto e molto operistico. Le due idee vengono elaborate magistralmente e alla fine il valzer-giga d’apertura ritorna a modo di berceuse e scompare misteriosamente nel nulla! Insomma, procedure formali assolutamente geniali e imprevedibili, che vanno rese con chiarezza nell’esecuzione, anche se non è facile!»
Perché?
«Perché la musica più recente ci ha esposto a un numero così grande di dissonanze e sorprese formali che rischiamo di vedere Mozart come semplice “acqua fresca” (cioè pura eleganza e leggerezza); ma Mozart esprime in realtà tutta la gamma dei sentimenti umani, dalla rabbia alla tenerezza infinita. In più, con gli autori di un passato così lontano, c’è più spazio per la speculazione interpretativa. Per la musica del ‘900 abbiamo molte incisioni degli autori stessi che possono guidarci nella corretta interpretazione dei segni indicati in partitura – e ne troviamo spesso parecchi; nelle pagine di Bach o Mozart, al contrario, se ne incontrano davvero pochi. Dal trattato di Leopold Mozart (ma anche da quello di J. A. Hiller) sappiamo che nel XVIII secolo non venivano scritte tutte le legature di articolazione, poiché molte di esse erano ritenute ovvie: sta dunque all’interprete saperle ricostruire tenendo presente che tali legature erano eseguite in modo differente dalla prassi attuale. Inoltre un compositore poteva inserire linee verticali e punti sulle note al fine di proibire l’inserimento di legature e non necessariamente per indicare uno spiccato. Questi sono solo alcuni dei problemi inerenti la prassi esecutiva storica: è un lavoro davvero difficile che richiede molto studio e il risultato finale rimane comunque un’ipotesi; e talvolta si incontrano delle sorprese…».
Quali sorprese?
«Da una sua lettera sappiamo che Mozart suonava (al fortepiano) gli adagi in modo desincronizzato: la mano sinistra procedeva perfettamente a tempo mentre la destra si prendeva delle libertà agogiche: praticamente il rubato chopiniano. Mi dica Lei quanti eseguono Mozart così! Eppure quando lo si fa – Carl Reinecke lo faceva, e anch’io ogni tanto lo faccio – si rischia paradossalmente di essere considerati ‘fuori stile’! A mio avviso bisognerebbe semplicemente studiare, ricostruire un’ipotesi interpretativa fondata, basata su fonti attendibili, invece di aderire ad una ‘presunta tradizione’ che altro non è se non una progressiva distorsione che passa di generazione in generazione, filtrata da cambi di moda continui. Oltre a ciò serve anche la capacità di immaginare l’effetto che una data composizione può aver suscitato negli ascoltatori dell’epoca in cui fu scritta».
Parlando di interpretazione, quali sono i suoi interpreti di riferimento del pianoforte e dell’orchestra, in particolare nel repertorio mozartiano?
«Mi piace moltissimo Harnoncourt, credo che abbia svolto meglio di tutti questo lavoro sulle fonti antiche e sulla ricostruzione delle prassi esecutive. Amo meno certi ‘barocchisti’ che sono venuti dopo e che spesso si limitano a suonare su strumenti antichi senza uno studio veramente approfondito delle prassi esecutive storiche. Nonostante ciò, ammiro molto anche il Mozart diretto da Bruno Walter, da Pablo Casals o, tra i contemporanei, da Riccardo Minasi. Per il pianoforte, un interprete mozartiano che mi è particolarmente caro è Rudolf Serkin. Prediligo anche András Schiff e Arturo Benedetti Michelangeli».
Ultima domanda: c’è una composizione di Mozart che Le piacerebbe eseguire o incidere ma non ha ancora avuto occasione di farlo?
«Ce ne sono molte: forse qualcuno degli ultimi concerti per pianoforte che non ho ancora eseguito. Ma è troppo difficile scegliere: trovo l’intera produzione di Mozart meravigliosa e il suo catalogo è davvero sterminato, nonostante sia vissuto solo 36 anni».
Luca Siri