Mendelssohn: un inno alla ripartenza.
Intervista a Marco Rizzi

«Sarà un concerto perfettamente in sintonia col tempo che stiamo vivendo». Parola di Marco Rizzi, uno tra i più apprezzati violinisti della sua generazione. Il concerto cui si riferisce è quello che lo vedrà protagonista, insieme con gli archi dell’Orchestra Filarmonica di Torino, martedì 18 maggio (ore 20) nel salone del Conservatorio e che sarà preceduto da una prova generale aperta, la sera precedente (ore 18.30) al Teatro Vittoria.
Un momento particolare, per diverse ragioni: perché, salvo spiacevoli imprevisti, sarà uno tra i primi appuntamenti finalmente dal vivo, dopo i duri mesi di distanziamento e di streaming, ma anche perché sarà all’insegna di una doppia guida. Marco Rizzi e Sergio Lamberto (primo violino dell’orchestra) condivideranno infatti il ruolo di solisti e concertatori.
In programma, il Concerto in re minore per violino e archi di Mendelssohn e, dello stesso autore, l’Ottetto in mi bemolle maggiore op. 20. A fare da cuscinetto sarà una “chicca” di Eugène Ysaÿe: Amitié (nella versione per 2 violini solisti e orchestra d’archi).
Approfondiamo alcuni aspetti esecutivi ed emotivi con il violinista ospite.

Maestro Rizzi, la serata con OFT vede lei e il maestro Sergio Lamberto impegnati come solisti e concertatori. Com’è possibile condividere questi ruoli?
«Credo faccia parte della natura di un musicista: aprirsi a idee che non sono le sue, accogliere nuovi punti di vista. Solo mettendo insieme stimoli diversi si riesce a costruire qualcosa di unico, che caratterizza una precisa esecuzione in un preciso momento. È proprio a partire da questa idea che è stato disegnato il programma della serata. Desideriamo mostrare come sia possibile collaborare a livelli diversi: in un concerto solistico, in un brano con due solisti e infine in uno cameristico. Aggiungo il fatto che con Sergio Lamberto c’è un rapporto di profonda stima e amicizia, costruito negli anni».

Insieme eseguirete il brano di Eugène Ysaÿe, intitolato proprio Amitié (amicizia). Di che cosa si tratta?
«È un pezzo di un’intensità straordinaria, che, senza rinunciare a gesti tecnici di notevole impegno, raggiunge vette poetiche altissime. Per molto tempo Ysaÿe è stato relegato nel recinto ristretto del virtuosismo violinistico. Si tratta, invece, di un compositore di prima grandezza, che merita di essere scoperto».

E ora veniamo al Concerto in re minore, che Mendelssohn scrisse quando era poco più che un bambino, ma che già lascia presagire la grandezza futura. Che cosa le piace di quest’opera?
«Mi affascina l’idea di essere davanti a un autentico enfant prodige. Forse più ancora di Mozart, Mendelssohn è stato toccato in età precoce dalla grazia del talento e della cultura. Così questo concerto, che egli scrisse appena quattordicenne, da un lato fa tesoro del modello beethoveniano (ad esempio, in certi passaggi di semicrome), ma dall’altro è già un presagio del celeberrimo concerto in mi minore, opera della piena maturità, nel quale alcune idee, qui ancora in abbozzo, guadagneranno una rotondità e una completezza inarrivabili. Diversi elementi apparentano i due concerti: c’è una cadenza costruita in modo simile, ma ci sono anche affinità nell’ultimo movimento, con il suo carattere fresco e virtuosistico».

Oltre che celebrato interprete, lei è anche un apprezzato didatta. Come si trova a lavorare con un’orchestra composta in gran parte da giovani, alcuni dei quali ancora studenti?
«Mi trovo benissimo! Come dicevo, con la Filarmonica di Torino, in particolare con la sezione archi, c’è un legame costruito nel tempo. Ogni volta che ritorno, percepisco l’impronta di una scuola ben riconoscibile, molto apprezzata a livello nazionale. Sento l’elettricità e la voglia di far bene, il che è stimolante e gratificante».

A proposito di insegnamento, come ha gestito questi mesi di didattica a distanza?
«È stato molto difficile. Per sua natura, l’insegnamento strumentale ha bisogno di una condivisione fisica dello spazio. Farlo da dietro a uno schermo, a prescindere dalla qualità della piattaforma usata, è una forzatura. In questo momento noto un gran proliferare di scuole e accademie musicali on-line. Personalmente sono molto critico. La didattica a distanza ha senso quando, come accaduto in questi mesi, è una risposta a una situazione contingente. Altrimenti è quasi una truffa».

Ma ora si spera di voltare pagina. Quello di maggio sarà uno dei primi concerti con il pubblico in sala, dopo mesi di streaming. Che emozione le suscita questa consapevolezza?
«È una condizione in cui ci siamo già trovati, a luglio 2020. E già allora ho sentito, nel pubblico, una grande fame di musica dal vivo. Uno dei pochi regali che questa pandemia ci ha fatto è stato quello di sottolineare il valore della cultura come esperienza sociale, condivisa. Non dimentichiamo questa ricchezza, ma serbiamola nel tesoro delle nostre esperienze».

Possiamo considerare il concerto con OFT come un inno alla ripartenza?
«Sì, assolutamente! E non potrei immaginare un programma più appropriato. Mendelssohn è un autore di assoluta speranza, positività e voglia di vivere. In più, come detto, il concerto è un viaggio dal solo, al duo, al complesso cameristico. È un invito a raccogliere le forze e a sostenerci l’un l’altro: mi pare molto adatto a questo tempo».

Lorenzo Montanaro