Il telefono di Massimo Quarta squilla a Città del Messico, in una pausa delle prove con l’Orchestra Filarmonica dell’Università Nazionale Autonoma del Messico (OFUNAM), il più antico complesso sinfonico del Paese (peraltro dotato di una splendida sala da concerto). Lui ne è direttore artistico dal 2017, e da molti anni non è più soltanto il grande violinista vincitore nel 1991 del Premio “Paganini” e artefice di una autorevole carriera nelle sale di tutto il mondo e su disco, ma anche un affermato direttore capace di impugnare archetto e bacchetta con splendidi risultati.
Piuttosto solido il suo legame con l’Orchestra Filarmonica di Torino, con la quale ha suonato nel 2011 per MITO SettembreMusica e nel 2013 per il Festival Beethoven, e che ora si appresta a dirigere in un concerto in stagione (il 3 dicembre, Conservatorio – ore 21), con la consueta e intrigante opportunità di assistere anche alle prove nei due giorni precedenti. In programma Mozart, l’immancabile Paganini e Haydn.
Maestro Quarta, che ruolo giocano i cinque Concerti per violino di Mozart, scritti tutti in un anno, nel vasto repertorio di questo strumento?
«In realtà è difficile contestualizzare questi cinque capolavori, dall’impronta così forte e graffiante, nella storia del repertorio per violino: fanno storia a sé, sono delle gemme assolute che non hanno nulla a che vedere né con ciò che è stato scritto prima né con le composizioni successive. Solo nel Quarto si possono riscontrare reminiscenze italiane, ma in generale ci troviamo di fronte a un linguaggio completamente differente che si evolve velocemente nel corso di quel 1775: nell’ultimo Concerto, il K. 219, si sentono ventate di Romanticismo».
Venendo a Paganini, visto che siamo a Torino vorrei chiederle se possiamo identificare dei traits d’union nella sua discendenza dalla scuola violinistica piemontese, quella di Somis, Pugnani e Viotti…
«Paganini eredita da Somis la cantabilità e da Pugnani il virtuosismo brillante, caratteristiche che vengono entrambe prese, elaborate ed estremizzate ai massimi livelli da Paganini. Dai suoi predecessori si distingue per un peculiare, unico approccio “operistico” alla scrittura musicale, tanto che Rossini ebbe a dire che – se Paganini avesse scritto opere – avrebbe dato filo da torcere a tutti i compositori dell’epoca (insieme a lui, Bellini e Donizetti). A me piace sottolineare questa sua straordinaria visione lirica nel far “cantare” il violino, che costituisce quasi una summa dei tre grandi operisti italiani del tempo, di cui la trascrizione dalla rossiniana aria «Di tanti palpiti» che eseguo è uno dei pezzi più difficili».
Non è frequente ascoltare la Sinfonia n. 64 di Haydn. Il sottotitolo “Tempora mutantur”, autografo o attribuito che sia, incuriosisce. Deriva da un distico di John Owen che recita: «I tempi cambiano, e anche noi cambiamo con essi. Ma come? L’uomo diventa sempre peggiore man mano che passa il tempo». È forse una composizione pessimista o si tratta di un gioco di parole per sottolineare alcune sperimentazioni musicali?
«In generale, persino nella musica a programma, non ritengo che le parole identifichino l’essenza della musica. Tutto Haydn è sorprendente: Sinfonie e Quartetti sono pieni di momenti che lasciano l’ascoltatore letteralmente basito. Il secondo tempo di questa Sinfonia n. 64, per fare un esempio tra i tanti, è grammaticalmente “scorretto”, fuori dai canoni. Se vogliamo speculare un po’ su questo titolo, interpreterei l’atteggiamento di Haydn così: provoco l’uomo con ritmi particolari, ma l’uomo continua a pensare con gli stessi paradigmi; l’uomo peggiora perché non ha il coraggio di osare, di innovare. Una lezione perfettamente assimilata da Beethoven, l’autore più provocatorio».
Il doppio ruolo di solista e direttore d’orchestra è ormai una costante della sua carriera. Da quando esattamente?
«La primissima volta in cui ho diretto è stato nel 1994, proprio con un brano di Haydn, la Sinfonia degli addii, e un Concerto di Mozart. Il debutto professionale vero e proprio è stato dieci anni più tardi, ma già nel 2000 ho registrato i Concerti di Paganini nella doppia veste».
Fino a un certo punto del repertorio questa prassi è filologicamente coerente, ma funziona anche dopo?
«Sia Beethoven sia Paganini suonavano dirigendo, sinché hanno potuto. Per quanto mi riguarda, pur avendo suonato con grandi direttori e diretto importanti solisti, nella mia esperienza conciliare in una persona i due ruoli è un arricchimento esaltante. Per me è diventata un’esigenza di vita, dell’anima. Il solo violino mi sta un po’ stretto…»
Simone Solinas