Bach o Stravinskij? Entrambi, con il concerto ICE BLUE
Intervista a Giampaolo Pretto

Proseguono gli appuntamenti della stagione Colors 2021 dell’Orchestra Filarmonica di Torino. Agli ascoltatori viene proposto il concerto ICE BLUE, trasmesso gratuitamente in diretta streaming martedì 2 marzo alle ore 21 sul canale Youtube dell’Orchestra.

Nell’attesa dell’evento abbiamo chiesto al maestro Giampaolo Pretto – impegnato nel doppio ruolo di direttore e flauto solista – di introdurci alle peculiarità di questo programma, composto da tre Concerti brandeburghesi di Bach (nn. 1, 3 e 5) e il “Dumbarton Oaks” di Stravinskij.

Maestro Pretto, considerato che la stagione 2021 dell’OFT ha per tema i colori, che collegamento c’è fra ICE BLUE e l’esecuzione musicale?
«Premetto che naturalmente i collegamenti sono orientativi. In quanto processi di assimilazione mentale essi producono significati diversi per ognuno di noi. Detto ciò, ICE BLUE fa riferimento in particolare a Stravinskij. Sebbene fosse un uomo di grande temperamento, accade molto spesso che lo si figuri come un compositore “cerebrale” e contrario allo spirito del tardo Romanticismo. Tutto nella sua musica doveva essere asciutto, pulito. Per questo “ice”. Anzi, se vogliamo tutto il periodo neoclassico di Stravinskij, a cui il Concerto “Dumbarton Oaks” appartiene, è una rivisitazione stilizzata, un po’ “frozen” mi verrebbe da dire, proprio del Classicismo. In ogni caso stiamo parlando di un Classicismo inteso in senso ampio: come per Pulcinella, si tratta piuttosto di Neobarocco. “Dumbarton Oaks” fa infatti esplicito riferimento al Concerto brandeburghese n. 3 e al contrappunto bachiano».

Entrando nel merito del rapporto fra Bach e Stravinskij riporto un aneddoto curioso. In matematica, nella teoria dei giochi, esiste un modello chiamato “Bach or Stravinskij” che indica una polarizzazione di scelte antitetiche. Prendendo spunto da questa opposizione, ha senso dire che le loro personalità sono così diverse oppure esistono dei punti di contatto?
«Sul piano delle biografie credo che i punti di contatto siano pochissimi se non nulli, ma potremmo disquisirne per giorni. Se invece consideriamo il processo compositivo… eccome se ci sono! Il “Dumbarton Oaks” parte proprio da alcuni incisi iconici del Terzo Brandeburghese e li processa con un contrappunto tutto suo, ma non meno rigoroso di quello di scuola fiamminga. La genialità di Stravinskij sta proprio nel far dialogare atteggiamenti compositivi così lontani attraverso un flusso che, per chi ascolta, è totalmente sensato. Nel secondo movimento ci sono persino parti seriali e semi-dodecafoniche! Il brano è di una cogenza estrema, eppure non appesantisce la brillantezza e la freschezza strumentale: è la finta semplicità stravinskijiana che nasconde un contrappunto straordinario. Questo rigore si incontra infatti con due elementi tipici del suo stile: un trattamento delle altezze parzialmente atonale e la poliritmia. Non ci sono due battute uguali! La cosa in comune con Bach allora… è proprio il cervello! La genialità speculativa di riuscire a giostrare tutti questi elementi con immensa maestria, facendo comunque del “Dumbarton Oaks” un pezzo straordinariamente piacevole da sentire».

Guardando all’aspetto interpretativo di questi brani, lei si ritrova nella frase di Harnoncourt, il quale definisce i Brandeburghesi un “catalogo” della musica barocca, un archivio delle possibilità della musica del tempo? Inoltre, che difficoltà si incontrano quando si affrontano di seguito repertori così simili ma anche così lontani cronologicamente?
«Per quanto riguarda la prima domanda viene molto difficile avere la presunzione di non essere d’accordo con un genio dell’interpretazione come Harnoncourt, conoscitore del Barocco come pochi altri. Aggiungo che il dispiegamento del colore dei Brandeburghesi è definito anche dall’impiego di organici assolutamente diversi… Ognuno dei sei mantiene la propria fisionomia, il proprio carattere con una straordinaria varietà rispetto al precedente o al successivo. Per questo sono anche un catalogo degli affetti molto vario, di cui non ci si stanca mai ‒ perché finito uno incomincia l’altro con uno stile completamente diverso».

«Per la seconda domanda, il Barocco e il Classico pongono interrogativi e problematiche esecutive che sono, almeno per quanto mi riguarda, sicuramente più grandi rispetto a Stravinskij, in cui è scritto tutto fino al minimo dettaglio. Stravinskij è molto difficile dal punto di vista tecnico… ma arriva a definire le arcate, i metronomi, ogni articolazione con pignoleria. Con Bach al contrario, ogni volta che si parte a fare una nota, si pongono interrogativi immensi. All’epoca si suonava con strumenti molto diversi a quelli che usiamo ora e siamo lontani da quella sensibilità, che andrebbe forse ricreata con l’immedesimazione nella prassi esecutiva ‒ come è successo negli ultimi cinquant’anni. Tutto insomma è frutto di scelte che sono sempre opinabilissime e discutibili. Da interprete devo dire che il mio atteggiamento di fronte ai due è molto diverso: con Stravinskij paradossalmente mi sento più sicuro e rilassato».

Maestro, questo concerto verrà trasmesso in streaming in un periodo che ci ha costretti a vivere la musica in maniera radicalmente diversa. Considerato quando avvenuto nell’ultimo anno, si sente di appoggiare un uso più intenso della sfera virtuale in musica, oppure questa dovrebbe rimanere fedele all’ascolto dal vivo? In altre parole, c’è un potenziale spendibile in questi cambiamenti?
«Guardi, rispondo anche in veste di amante della musica, come fruitore. Per quanto mi riguarda vedo il mio futuro come una ricerca continua per la coesistenza creativa fra entrambe le possibilità. Un esempio pratico. Io appartengo a una generazione in cui, per ascoltare brani che non conoscevamo, avevamo solo due possibilità: comprare il disco o andare a concerto. Adesso è cambiato tutto. Un musicista del 2021 ha una libreria multimediale infinita di conoscenze riguardo a qualsiasi, e sottolineo, qualsiasi brano. Prima di Youtube, prima di Spotify, non era così immediato. Ora, quando io studio una nuova partitura prima la studio da solo. Ma dopo aver formulato le mie idee ascolto non una, ma trenta versioni, che sono sempre a mia disposizione. Questo sostituisce l’esperienza performativa? Assolutamente no. Quello che accade nella sala da concerto lo sappiamo tutti: è qualcosa di diverso. È qualcosa di legato all’attimo, allo scambio di energie e all’osmosi. In questo senso il virtuale resta un surrogato. Quello che però può continuare ad esistere è la possibilità di riflettere sulla ‒ e attorno ‒ la musica, utilizzando in maniera creativa e intelligente i mezzi che ci vengono dati, incluso lo streaming. Sono esperienze diverse, certo, ma il nostro futuro sarà in parte determinato dalla capacità di utilizzare entrambi i mezzi, nel modo più intelligente possibile».

Elia Colombotto