L’Orchestra di Padova e del Veneto torna a Torino per Final Time.
Intervista a Luigi Piovano

Anche nella stagione 2019-2020 l’Orchestra Filarmonica di Torino porta avanti la politica intrapresa nella passata stagione di scambi culturali con altre orchestre. Quest’anno è la volta dell’Orchestra di Padova e del Veneto, che il 28 gennaio verrà ospitata nella sede del Conservatorio di Torino, facendo seguito alla trasferta dell’OFT a Padova il 5 dicembre scorso.
Abbiamo intervistato il maestro Luigi Piovano, chiamato a dirigere l’orchestra veneta in un raffinato programma che propone musica francese di inizio Novecento – con la partecipazione dell’arpista Emanuela Battigelli – e l’ultima Sinfonia mozartiana “Jupiter2. In questa stagione dedicata all’indagine sul Tempo, il concerto porta il titolo “Final Time”.

Maestro Piovano, lei è un violoncellista affermato: primo violoncello dell’Orchestra di Santa Cecilia, con una brillante carriera anche come solista. Cosa l’ha spinta a dedicarsi anche alla direzione d’orchestra?
«La direzione d’orchestra, come lo studio del pianoforte da bambino, è stata una necessità oltre che un arricchimento: la necessità di conoscere sempre più da vicino le partiture e di approfondire il discorso musicale di una sinfonia, di un’opera, ma anche di una sonata, perché è impossibile suonare le sonate di Beethoven e di Brahms senza conoscere la parte pianistica. Chi suona una parte monodica, come me, deve essere curioso di vedere anche dentro la partitura che sta eseguendo: è fondamentale per conoscere l’armonia, ma anche per l’intonazione e per capire lo sviluppo delle varie parti. Questo desiderio di approfondimento e di conoscenza è insito nella mia natura ed è sempre stato alla base della mia cultura musicale: mio padre è compositore e direttore d’orchestra, per cui in casa già da ragazzino analizzavo partiture con lui. Poi ho avuto la fortuna di incontrare i più grandi direttori viventi quando sono arrivato a Santa Cecilia, a 27 anni. Lì sono stato stimolato dalla possibilità di confrontarmi con le partiture non dal punto di vista del musicista in orchestra, ma da quello di colui che “tira le fila”».

E da lì è stato un crescendo di esperienze…
«Non ho iniziato subito a lavorare con le grandi orchestre, ma con le orchestre da camera e ancora prima con le orchestre d’archi. Conoscendo ovviamente molto bene il funzionamento tecnico e strutturale dello strumento ad arco, e avendo alle spalle tanta esperienza in ambito barocco, con un mio amico violoncellista creammo una piccola orchestra d’archi. Poi da lì la cosa è cresciuta: mi hanno offerto sempre più opportunità, fino alla nomina di direttore principale dell’Orchestra della Magna Grecia di Taranto, dove ho fatto esperienze straordinarie con il grande repertorio sinfonico. Quest’anno debutto con Tosca a Catania, ho appena terminato un progetto meraviglioso con l’Orchestra Sinfonica Siciliana e il prossimo anno debutterò con l’Orchestra Haydn di Bolzano. Inoltre da anni sono direttore principale degli archi a Santa Cecilia, un riconoscimento altamente gratificante, “a casa mia”! Quindi posso dire che il mio imprinting di nascita, l’orchestra d’archi, è rimasto come un marchio indelebile nella mia vita».

Roma, Auditorium Parco della Musica 14 02 2019
Stagione di Musica da Camera
Archi di Santa Cecilia
Luigi Piovano direttore
©Musacchio, Ianniello & Pasqualini

Il concerto del 28 gennaio si inserisce in un contesto di scambio tra l’Orchestra Filarmonica di Torino e l’Orchestra di Padova e del Veneto, formazione con la quale lei ha già lavorato
«Mi sono avvicinato all’Orchestra di Padova e del Veneto quando alla direzione artistica è subentrato il maestro Angius, che mi ha dimostrato una grande stima nel chiamarmi una o due volte l’anno. Ne sono onorato, sia perché è una delle migliori orchestre d’Italia, sia perché è un’orchestra storica, con una intensa attività concertistica. È un’orchestra con un altissimo livello tecnico strumentale, violinistico in particolare; ricordiamo che nel Veneto c’è una rinomata scuola violinistica che vanta nomi come Piero Toso, che ha fatto la storia di quest’Orchestra, Angelo Stefanato e Giovanni Guglielmo. Per questo ci torno sempre molto volentieri. Insieme abbiamo realizzato programmi molto interessanti e corposi».

Entrambe le orchestre stanno investendo sui giovani. Vuole parlarci di questo aspetto?
«Il lavoro con i giovani è fondamentale. Abbiamo degli esempi storici da Abbado a Muti e adesso con Gatti a Milano e Pappano a Benevento. Si è capito che non bisogna stravolgere gli organici, ma amalgamare le nuove generazioni con le vecchie, permettendo alle esperienze depositate di transitare da una all’altra. Il rinnovamento si ha quando qualcosa di legato al passato subisce un cambiamento, altrimenti, se il nuovo sostituisce totalmente il vecchio, si ha uno stravolgimento. E va gestito intelligentemente, un po’ alla volta: se in una fila si sostituiscono quattro musicisti, si rischia di avere un ricambio generazionale che non ha memoria storica. Quindi fondamentale è dare l’opportunità ai giovani di sedersi in orchestra accanto a persone esperte e di fruire della loro esperienza (per esempio nel gestire lo stress dell’esecuzione); esperienza anche umana, non solo professionale, considerando che nella società di oggi ci si ascolta poco e spesso viene meno il rispetto per gli altri. Quando si affronta un programma avendo a disposizione solo due o tre giorni di prove, è necessaria una pratica orchestrale che si forma nel tempo. È un po’ come quando si impara a guidare: alle prime lezioni il motore ti si spegne, sei impacciato. Poi acquisisci una certa esperienza, e così come il tragitto che fai in auto è sempre diverso, allo stesso modo sempre diverso è il percorso di costruzione di una sinfonia; dipende dal direttore, dalla velocità, dal compagno di leggio… È un’esperienza unica perché si rinnova ogni giorno».

Secondo Lei, come possiamo mettere in relazione il programma del concerto con il titolo della serata Final Time?
«È un programma molto bello perché si parla di fiaba, di sacro, di profano, con tanta simbologia esoterica, e con un organico orchestrale denso, a parte Danses, che ha una struttura orchestrale molto semplice che supporta e mette in risalto la parte dell’arpa. È un brano che a me piace moltissimo, una vera chicca: oggi si esegue con l’arpa diatonica, ma è stato scritto da Debussy per l’arpa cromatica, uno strumento sperimentato all’inizio del 1900 e poi caduto in disuso.
In Final Time ci sono collegamenti di tipo cronologico, perché la Sinfonia n. 41 è l’ultima composta da Mozart, che in tre mesi ne ha scritte tre del calibro della n. 39, la n. 40 e poi la “Jupiter”. A giugno di quell’anno [1788] aveva perso la figlia di sei mesi, poi la rappresentazione del Don Giovanni a Vienna non ebbe il successo che aveva avuto a Praga… Normalmente in situazioni simili ci si rinchiude nel proprio dolore, e invece Mozart scrive questi tre capolavori! Il genio aveva bisogno di scrivere: queste sinfonie non sono state commissionate da nessuno, le ha scritte per se stesso. Ma certamente non sapeva che “quella” Sinfonia, la “Jupiter”, sarebbe stato il suo Final Time. L’ultimo tempo è “di un altro pianeta”: quando parte la fuga e riprende gli elementi del primo movimento… ecco lì Mozart dimostra la conoscenza assoluta di qualsiasi congegno meccanico. Un genio. Punto. In un’intervista su Amadeus mi hanno chiesto la differenza fra talento e genio. La mia risposta è stata che «il talento arriva dove gli altri non arrivano, il genio vede quello che gli altri non vedono». Il titolo del concerto è dunque certamente collegato anche alla fine del tempo. Ma per fortuna il tempo non finisce e continua attraverso tanti altri grandi compositori fino ad oggi, da Beethoven a Stockhausen e oltre. Lo stesso Martino Traversa che ha realizzato la trascrizione delle Six épigraphes antiques ha fatto un lavoro fantastico. Quindi, veramente, il tempo non si ferma».

Donatella Meneghini