Dal 1992 si è imposta nel panorama musicale cittadino affiancando direttori e solisti di lungo corso a giovani musicisti di talento e rinnovando costantemente la propria proposta artistica con originali programmi a tema. L’Orchestra Filarmonica di Torino si prepara quest’anno a festeggiare i suoi primi trent’anni di vita con la stagione Prospettive 2022: sei concerti da gennaio a giugno, ispirati ai solidi platonici e agli elementi fondamentali della natura ad essi associati.
Il primo appuntamento, dal titolo Cubo (La terra), in programma martedì 18 gennaio alle 21 al Conservatorio di Torino, sarà preceduto come di consueto dalla prova di lavoro di domenica 16 alle 10 a Più SpazioQuattro e dalla generale di lunedì 17 alle 18.30 al Teatro Vittoria.
Protagonista sul podio di OFT il direttore musicale Giampaolo Pretto, chiamato ad affrontare la Terza sinfonia di Schubert e la Suite da Appalachian Spring di Copland nella versione per 13 strumenti.
Maestro Pretto, da direttore musicale come giudica fin qui il percorso di crescita di OFT e cosa si augura per il futuro dell’orchestra?
«Sono direttore musicale di OFT dal 2016, ma la mia collaborazione come solista risale al 2009. In questi anni l’orchestra è cresciuta artisticamente grazie all’apporto di nuovi elementi provenienti dalle mie passate esperienze di istruttore di formazioni giovanili. Con la preziosa collaborazione della storica spalla Sergio Lamberto, abbiamo unito agli ospiti abituali di OFT giovani eccellenze dello strumentismo, puntando sempre di più al miglioramento organico delle performance. Nonostante le difficoltà legate alla pandemia, la qualità offerta dalle nostre stagioni ha garantito quasi sempre il tutto esaurito e non possiamo che ringraziare il nostro affezionato pubblico. Il mio augurio è che OFT mantenga ancora a lungo il proprio ruolo quale terza compagine torinese, dopo Orchestra del Regio e OSN Rai».
Nel concerto inaugurale di stagione dirigerà la Terza sinfonia di Schubert e la Suite da Appalachian Spring di Copland. Due capolavori di epoca e origine molto diversa…
«Il programma originario prevedeva, in realtà, l’esecuzione delle tre Pastorali di Beethoven, Stravinskij e Honegger, ma le norme vigenti sul distanziamento dei musicisti sul palco ci hanno costretto a optare per un organico ridotto che consentisse all’orchestra di suonare in sicurezza. Così la scelta è ricaduta su due pagine vivaci e dai connotati più cameristici, che abbiamo giudicato ideali per celebrare l’esordio di stagione. Ad accomunarle è l’energia trascinante che le contraddistingue, legata chiaramente alla loro impronta giovanile».
La terza fatica sinfonica schubertiana, di tutte la più breve e concentrata, è opera di apprendistato ligia al modello classico di Haydn. Quali sono le novità formali che vi inscrive il compositore viennese, all’epoca diciottenne?
«La Terza si colloca nell’alveo del sinfonismo haydniano, è vero, ma Schubert aveva ben presenti i superbi modelli beethoveniani. Notevole è il fatto che la Sinfonia non abbia tempi lenti, fatta eccezione per la breve parte introduttiva del primo movimento. Così, nel secondo tempo il solito adagio cantabile fa posto a un Allegretto più semplice e scorrevole (soltanto tre anni dopo quello della Settima di Beethoven), che ricrea il clima di quegli intrattenimenti da salotto per i quali Schubert scrisse molta musica di danza. Ugualmente, nel movimento finale sono presenti particolari arditezze nelle progressioni armoniche che si rifanno più a Beethoven che a Haydn. Ciò che mi incuriosisce di questa sinfonia è che, per tonalità e struttura compositiva, funziona perfettamente sia con un organico sinfonico monumentale sia con un’orchestra più ristretta, come quella con cui la eseguiremo».
Esistono due versioni anche della Suite dal balletto Appalachian Spring. In cosa si distingue la partitura originale per 13 strumenti dalla più nota trascrizione sinfonica?
«La partitura di Appalachian Spring, composto per la coreografia di Martha Graham, fu concepita solo per 13 strumenti al fine di realizzare una sonorità chiara e leggera, in sintonia con l’azione scenica. Tuttavia, lo stesso Copland aveva previsto la possibilità di ampliare il numero degli archi, e in questa forma la proporremo. Successivamente, la grande popolarità del balletto indusse Copland a ricavarne una suite sinfonica, premiata con il Pulitzer nel 1945 e ammirata dallo stesso Leonard Bernstein, che dell’autore fu compagno di studi a Parigi sotto la guida di Nadia Boulanger. Ad eccezione di qualche taglio o piccola variazione, la versione cameristica mantiene inalterata tutta la baldanza e la colorita orchestrazione di quella per grande orchestra».
Con il suo caratteristico melos popolaresco, la Suite ci riporta all’America romantica delle praterie sconfinate di fine Ottocento. Dove sta la sua modernità?
«Appalachian Spring appartiene a quel periodo creativo di Copland in cui il desiderio di allagare la fruizione ad un pubblico quanto più vasto lo spinse a trarre spunto dalla tradizione americana, sia come soggetto sia come reinvenzione di temi e cadenze popolari. È una pagina brillante, eclettica e piacevole all’ascolto, che presenta una duplice lettura: “alta”, per qualità compositiva e inventiva, “bassa”, per l’accessibilità della matrice folclorica. La sua modernità risiede nella grande variabilità delle espressioni ritmiche e nelle tante finezze armoniche che lo collocano fra i brani più interessanti del Novecento».
L’elemento della terra, cui è ispirato il tema del concerto e in particolare Appalachian Spring, evoca il legame inesauribile fra musica e natura. Che appaia come paesaggio o come concetto filosofico, la natura non ha mai smesso di figurare nei cataloghi dei compositori di tutti i tempi. Come mai?
«Fra tutte le forme d’arte la musica è quella che ha il rapporto più stretto con la natura. Così è sempre stato e così sarà sempre. Sono due stati dell’anima molto simili perché entrambe le esperienze rispondono a esigenze spirituali più profonde di quelle immediatamente legate alla mera sopravvivenza. Quando guardiamo un paesaggio produciamo endorfine che titillano la stessa area del cervello che stimoliamo facendo o ascoltando musica. Il solo fatto di essere materia impalpabile, di esistere come emissione di frequenze e timbri, colloca la musica in una dimensione “altra”, puramente contemplativa».
Valentina Crosetto