Roberto Cominati con OFT sulla vetta del Rach 3

Che ora indica, a marzo, l’orologio dell’Orchestra Filarmonica di Torino? L’ora di raggiungere una vetta: “Top Time”. Proprio per questo il concerto diretto da Giampaolo Pretto, in programma il 28 aprile (Conservatorio, ore 21), sarà dedicato a due lavori che segnarono un momento di svolta e di speranza nella carriera dei loro autori: il Concerto per pianoforte n.3 di Rachmaninov e le Danze slave di Dvořák. Il primo fu ideato per un tour negli Stati Uniti, durante il quale Rachmaninov avrebbe voluto dimostrare in modo definitivo che il suo talento di compositore non era affatto inferiore a quello di pianista. Il secondo nacque da una commissione e segnò il vero inizio della carriera musicale di Dvořák.
L’impervia parte solistica del Concerto di Rachmaninov sarà affidata al pianista Roberto Cominati.

Maestro Cominati, prima del concerto il pubblico è invitato a partecipare alle prove di lavoro (il 26 aprile alle 10, presso +SpazioQuattro) e alla prova generale (il 27 aprile alle 18:15, al Teatro Vittoria). Cosa pensa di queste iniziative?
«Credo siano importantissime e, insieme, credo che non bastino! Come molti dicono, sin dalla scuola si dovrebbe avvicinare i giovani alla musica classica: come ci si accosta a Manzoni, a Leopardi o ad altri, non vedo perché non conoscere anche ai grandi compositori. Ma, a parte questo, oggi dobbiamo affrontare un ostacolo importante: la nostra incapacità, sempre maggiore, di sederci, spegnere il cellulare e abbandonarci. Siamo sempre più lontani dal porci davanti alla complessità. Per esempio, un pezzo come il Concerto n.3 di Rachmaninov è complesso, inutile nasconderlo! È un pezzo che dura 35-40 minuti, con dei temi che si intrecciano e ritornano dopo, con una varietà di passaggi… Ho la sensazione che sia molto difficile essere rapiti da quest’opera se si entra in sala senza un minimo di preparazione. Per questo le diverse iniziative che coinvolgono il pubblico sono molto importanti, anche se temo che nel mondo di oggi non bastino!»

Lei sarà protagonista del concerto “Top Time”, quale momento della sua carriera indicherebbe come il “top”?
«Sicuramente quando ho vinto il Concorso Busoni del 1993, che mi ha cambiato la vita! È stata una tappa fondamentale e infatti ogni volta che penso alla mia vita, a eventi che sono accaduti nel corso degli anni, mi riferisco sempre a un “pre” o un “post” Busoni, perché è stato proprio uno spartiacque, soprattutto nel mio percorso professionale, ma anche in quello personale: sono andato a vivere da solo, ho conosciuto tante persone… Quel premio ha cambiato moltissimo, e in meglio, la mia esistenza».

E se invece dovesse scegliere un’incisione in cui si è sentito “al top”?
«Direi le ultime. Soprattutto nelle esecuzioni in studio, ho la sensazione di suonare sempre in modo più vicino a quello che io sento. La distanza tra quello che vorrei fare e il risultato effettivamente ottenuto, almeno nelle incisioni (e forse anche nelle esecuzioni dal vivo), si è ridotta nel corso degli anni. Ovviamente ci si potrebbe chiedere se questa distanza si sia ridotta perché sono diventato più bravo a fare quello che pensavo o perché mi sono posto mete più raggiungibili… Dovrei riflettere di più su questo punto! Comunque, le ultime incisioni sono quelle che mi convincono di più!»

A questo proposito, da qualche mese sta incidendo per Decca-Universal l’intera produzione per pianoforte di Debussy. Con l’OFT proporrà invece un capolavoro di un altro grande pianista-compositore di inizio Novecento, Rachmaninov. I due musicisti, vicini cronologicamente, sono in realtà molto lontani da un punto di vista stilistico: nota qualche punto di contatto fra i due?
«Oltre le ovvie divergenze, direi che forse li accomuna una sorta di mistero. Sicuramente il mistero appartiene al Debussy più maturo; questa caratteristica la riconosco, forse più sotto forma di cupezza, anche in alcune composizioni di Rachmaninov (soprattutto per orchestra). Per il resto le loro vite e le loro personalità erano davvero molto diverse…»

Secondo Vladimir Horowitz, Rachmaninov avrebbe detto che il Concerto n.3 “è scritto per elefanti”. Secondo lei, a che cosa si riferiva?
«Non conoscevo questo commento, ma forse il compositore si riferiva all’estensione della mano. Ad esempio, all’inizio del secondo movimento Rachmaninov utilizza una grande estensione: ci sono alcuni accordi che si prendono se si ha la mano grande, altrimenti si deve arpeggiare. Rachmaninov soffriva della sindrome di Marfan, per questo aveva le mani molto lunghe. Con quelle mani enormi, “elefantiache” come si vede nelle foto, poteva prendere un intervallo di dodicesima sulla tastiera con una certa facilità. Io, che ho una mano abbastanza grande, arrivo a prendere una dodicesima, ma con grande sforzo!»

Come ci spiegava prima, il Concerto ha una struttura complessa e a questo si aggiunge la complessità tecnica della scrittura pianistica. Dal punto di vista esecutivo, qual è più difficile da superare?
«La difficoltà maggiore è quella tecnica: in qualche passaggio si è coperti dall’orchestra e si può nascondere un’imperfezione, in altri casi ci sono difficoltà notevoli che all’ascolto sembrano ancora maggiori, e, viceversa, ci sono dei passaggi veramente rognosi, in particolare all’inizio del terzo tempo, che non sembrano così difficili e invece lo sono. Per il resto, la musica più la suoni, più riesci a capirla, più riesci a darle un senso. Eseguo questo Concerto da talmente tanto tempo che sento di averlo completamente interiorizzato. Oramai è un mio pezzo!»

 Liana Püschel