Michele Mariotti torna a dirigere l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (giovedì 28 e venerdì 29 novembre) dopo il successo di Semiramide la scorsa estate al ROF di Pesaro. Inevitabile che la conversazione prenda spunto proprio da qui, dal fatto – non del tutto scontato, riflette Mariotti – che un’importante orchestra sinfonica abbia saputo dare anche una grande prova nel teatro d’opera. «D’altra parte – afferma il direttore – se Semiramide è il trionfo del belcanto rossiniano, è altrettanto certo che l’orchestra è a sua volta “personaggio”».
Maestro Mariotti, lei torna all’OSN della Rai in sala da concerto, anche se nel programma non mancano riferimenti al teatro. La stessa Arpa magica di Schubert nasce come musica di scena e le pagine tratte da Salome e Rosenkavalier provengono da opere teatrali…
«Il programma è molto bello e penso che Schubert e Strauss stiano bene insieme. Sono contento di aprire con Die Zauberharfe, un brano che andrebbe conosciuto ed eseguito di più. Se dovessi trovare un filo conduttore della serata direi che è quello del disincanto e della malinconia, il saper guardare la vita dalla fine. Il Rosenkavalier è un po’ l’apoteosi di questo sguardo».
Come si pone Michele Mariotti rispetto al tema della compiutezza dell’Incompiuta? È noto da tempo che il progetto originario di Schubert prevedeva un’intera sinfonia in quattro movimenti e dunque la “compiutezza” non avrebbe riscontri storicamente attendibili. Eppure, ascolto dopo ascolto, il senso di coerente conclusione sembra rafforzarsi. È solo una questione di abitudine?
«No, io questa Sinfonia la sento molto compiuta. È composta da due movimenti a loro volta raddoppiati al proprio interno e dotati di un forte dualismo di temi e di caratteri. C’è tensione, c’è contrasto, ma su tutto domina un senso di conforto che è dato, come sempre in Schubert, dall’accettazione della fine come fatto naturale, per tutti gli esseri viventi, animali e vegetali. In questo, Schubert è come Leopardi: non vedo pessimismo nella loro arte ma, al contrario, un’accettazione coraggiosa della condizione umana. In fondo questo è anche l’atteggiamento della Marescialla nel Rosenkavalier, che allo specchio vede “il tempo che le cola sul volto” e fa una scelta saggia. L’uso del valzer (c’è molto “tre quarti” in questo programma!) va proprio in questa direzione».
Già, il valzer. Dopo l’erotismo torbido di Salome, dopo l’incandescente Elektra, Strauss volle scrivere un’opera dichiaratamente mozartiana, ma all’epoca di Mozart non si ballava il valzer…
«Il valzer del Rosenkavalier non ci parla ovviamente della nostalgia di Strauss per l’epoca di Mozart ma dello sguardo del compositore sulla propria epoca. Ecco perché qui il valzer assume una forte valenza simbolica. E poi c’è sempre la straordinaria capacità di Strauss di condurre insieme varie idee, creando uno spazio musicale ricco di significato. Il modo, per esempio, in cui usa gli archi “divisi”, affidando loro differenti linee melodiche, è davvero esemplare nella sua capacità di creare una densità di suono. Densità che il direttore d’orchestra deve saper restituire in termini di profondità, mai di confusione».
Nicola Pedone