Frizzante e ibrido il “Concerto di Carnevale” che l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai propone il 21 febbraio (Auditorium Rai, ore 20.30). Sul podio John Axelrod, direttore principale e artistico della Real Orquesta Sinfónica de Sevilla, considerato uno dei “bernsteiniani” più quotati al mondo.
Ad aprirlo è proprio un brano di Bernstein ibrido fin dal titolo: Prelude, Fugue and Riffs, per clarinetto e jazz ensemble. Da un lato reminiscenze classiche che affondano le radici nel binomio barocco “preludio e fuga”, dall’altro il “riff”, quel breve, arguto motto di sapore jazz reiterato per ammaliare, e talvolta ipnotizzare l’ascoltatore. Composto nel 1949, e rivisto nel 1952, il brano era destinato alla mitica orchestra di Woody Herman. Oggi è affidato a un solista della Sinfonica Rai dal virtuosismo certificato: il primo clarinetto Enrico Maria Baroni.
Ancora più ibrido è il Concerto per violoncello, fiati, basso e batteria che il carismatico Friedrich Gulda scrisse nel 1980, mescolando i generi e sfidando le convenzioni. Dentro i suoi cinque movimenti si trova di tutto un po’, dal rock alla disco dance, dal jazz alla musica popolare e bandistica, dallo stile viennese al gusto iberico, dal taglio romantico a quello ironico. Di questa fucina di sonorità si fa interprete Giovanni Sollima, artista e compositore di eccezionale empatia, che di contaminazioni se ne intende, capace con il suo strumento di viaggiare in mondi altri, dal cinema alla filosofia… ai mutamenti climatici.
La raffinata capacità di modulare un’orchestra, la timbrica dei singoli strumenti e le tinte dell’insieme, è una delle caratteristiche più celebrate di Gershwin. La sua Cuban Overture (1932) pare una vera e propria cartolina da L’Avana: ritmi caraibici e un ampio spettro di colori rendono la pagina vivida, emozionante, sofisticata, con l’eco di una canzone allora in voga, Échale Salsita di Ignacio Piñeiro, e il brulicare di danze cubane sottopelle.
E sempre all’insegna del mescolare carte, colori e sensi, affidando all’udito il compito di avere “visioni”, è l’Harlem suite di Duke Ellington. Commissionata da Arturo Toscanini nel 1950, ha due vesti: una è quella del «Concerto grosso per jazz band» (come la definì l’autore), l’altra è la versione sinfonica orchestrata da Luther Henderson. Un grintoso assolo per tromba dà l’avvio alla promenade nel cuore della cultura afroamericana. «È domenica mattina. – Scrive Ellington – Passeggiamo dalla 110a Strada alla Seventh Avenue, tra il quartiere spagnolo e West Indian, verso la 125a Strada […] E lungo il percorso sentiamo avvicinarsi una parata, un corteo funebre, un gruppo di manifestanti per i diritti civili», ci assale la lentezza blues del mattino, la frenesia jazz della notte. È Harlem uno dei molti sogni sinfonici del Duca.
Monica Luccisano