La nomina di Fabio Luisi a direttore principale della NHK Symphony Orchestra di Tokyo era ancora fresca d’inchiostro, quando è stata resa nota la sua nomina anche a direttore emerito dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. I dirigenti della NHK, la più antica formazione professionale del Paese, hanno dichiarato che la scelta è caduta su Luisi per la «sua musicalità unica, che unisce il lato nobile e appassionato a quello delicato e genuino».
Il concerto del prossimo giovedì 6 maggio (ore 20, trasmesso in diretta euroradio su Radio3 e in live streaming su raicultura.it, in differita il 22 settembre su Rai5) con la sua nuova orchestra, che Luisi ha diretto diverse volte nell’anno della pandemia e del lockdown dimostrando un attaccamento ai colori aziendali molto apprezzato dai musicisti, è la migliore occasione per saggiare le qualità che hanno tanto colpito all’altro capo del mondo. Il programma, infatti, prevede due lavori che fondono esattamente gli elementi messi in evidenza dai dirigenti giapponesi in Luisi, la nobiltà e la passione del Primo Concerto per pianoforte di Liszt da un lato, l’espressione tragica ma mai sguaiata, pur nel pianto sfrenato e nel dolore devastante, della Sinfonia Patetica di Čajkovskij.
Liszt e Čajkovskij definiscono in maniera interessante la musica europea del secondo Ottocento. L’uno cosmopolita, precocissimo, personaggio pubblico, eroe del pianoforte romantico, fervente innovatore, amante appassionato; l’altro, invece, profondamente russo, nevrotico, in lotta perenne con pulsioni autodistruttive, ipersensibile fino all’isteria, omosessuale infelice. Insieme, questi due musicisti, così diversi l’uno dall’altro, hanno definito il gusto di una larga fetta della musica sinfonica del tardo Ottocento, riuscendo a parlare ciascuno a suo modo al cuore del pubblico, in una società che si andava rapidamente secolarizzando, mercificando, tecnicizzando.
Liszt chiama Concerto un lavoro che somiglia assai di più a una grande confessione pubblica attraverso il pianoforte, il quale rispecchia con un’eloquenza priva di parole gli umori e gli impeti di un ego troppo ingombrante. A calarsi nei panni dell’eroe di questa splendida pagina concertistica è Alexander Malofeev, che ormai è troppo veterano delle stagioni dell’Orchestra Rai per poterlo definire ancora giovane pianista, qual è invece dal mero punto di vista anagrafico. Valerij Gergev ha creduto in lui fin da ragazzino, e per come suona, forse anche per via di quei capelli biondi come spighe e di quegli occhi cerulei e indecifrabili, Malofeev potrebbe anche rivelarsi un replicante di Blade Runner.
L’influsso delle ultime tre Sinfonie di Čajkovskij, e in particolare della Patetica, sulla musica del Novecento è ancora un po’ troppo sottovalutato. Non bisogna lasciarsi catturare interamente dalla smagliante bellezza della tavolozza armonica di Čajkovskij, dalle sue inebrianti e orecchiabili melodie, dai ritmi incalzanti e trasudanti di vita. L’orchestra di Čajkovskij apre la strada a sonorità inaudite, a combinazioni di colori mai tentate in precedenza, a una scenografia teatrale del suono che molti maestri del secolo successivo, magari senza dichiararlo apertamente, terranno ben presente.
Pensiamo, per esempio, a cosa diceva Krzysztof Penderecki a proposito della Patetica: «L’emancipazione del colore sonoro come un elemento paritetico della composizione ha una lunga tradizione alle spalle. Ascoltate una qualsiasi Sinfonia di Čajkovskij, dimenticando la sua evoluzione armonica e la specifica altezza dei vari suoni, e concentrando l’attenzione solo sullo sviluppo del suono strumentale, il suo colore, la dinamica, il registro, la durata di ciascun suono […] Prendiamo, per esempio, il magnifico finale della Patetica, con il graduale mutismo degli archi, giù fino ai violoncelli e contrabbassi in pppp. La scelta degli intervalli qui è insignificante, la cosa importante è proprio l’effetto della delicatezza degli archi che si dissolvono gradualmente in un mormorio». Siamo sempre pronti a dare per scontato ciò che è evidente, per esempio il lato kitsch ed esibizionistico della Patetica, ma in Čajkovskij c’è molto altro, e sarebbe un vero peccato perdere il meglio incorrendo in un errore così grossolano.
Oreste Bossini