Francesco Piemontesi: Brahms con consapevolezza

Anche al telefono, come alla tastiera, Francesco Piemontesi dà l’impressione di un modo di fare molto concreto, senza fronzoli ed estremamente curato e attento alla sostanza. Il nome italiano (anzi effettivamente di origine piemontese, tre generazioni avanti la sua) non inganni: nato nel 1983 a Locarno, in Svizzera, ha compiuto gran parte degli studi ad Hannover, in Germania, finché si è stabilito a Berlino, punto di partenza per un notevole numero di concerti, tenuti per lo più nel Nord Europa; l’anno prossimo una nuova tournée americana, in verità poche le occasioni per ascoltarlo in Italia.

Come vede il nostro Paese da lassù?

«L’Italia rimane per me uno dei paesi più belli del mondo, per il paesaggio, i beni artistici e culturali, la cucina, e certo anche la musica, con gli splendidi teatri e le orchestre di buon livello che avete. Mi rattrista un po’ quel che leggo sui giornali della scena politica, il fatto che la discussione si svolga con toni in “forte” e “fortissimo” e soprattutto senza un vero orientamento alla ricerca di una soluzione. Qui parlano meno e fanno… Verrei a suonarci anche più spesso, ma le proposte arrivano tendenzialmente sempre più tardi rispetto ad altri paesi, e allora non è facile trovare il periodo».

Lei ha avuto maestri eccellenti, che cosa ha tratto maggiormente dai loro insegnamenti?

«Incontrai Alexis Weissenberg quando ero giovanissimo, a 12 o 13 anni, abitava a pochi chilometri da casa mia, e fu forse il primo che cominciò a farmi capire quali dimensioni potesse prendere la musica, il fatto cioè che oltre al testo scritto sia opportuno immaginare cosa ci sia dietro le note, definire a se stessi il carattere di un brano, costruire su quella definizione la ricerca del suono. Poi c’è stata Cécile Ousset, dalla quale ho appreso soprattutto una grandissima base tecnica: il suo sistema si basa sulla tecnica Alexander e prevede che ci sia tensione solo sulla punta delle dita, mentre tutto il resto del corpo rimane rilassato; un approccio che allontana i problemi fisiologici legati al troppo sforzo (come tendiniti o distonia focale).

Ad Alfred Brendel è legata una delle grandi sorprese della mia vita, poiché fu lui a scrivermi un’email dopo aver ascoltato una mia incisione per la BBC; gli era piaciuta molto e diede la sua disponibilità a insegnarmi: qualche giorno dopo ero già sull’aereo per Londra. Mi ha massacrato su come cesellare ogni frase musicale, come dare importanza a ogni nota e non lasciare proprio niente al caso: quando sai realizzare tutti i dettagli sei poi libero di far quel che vuoi, hai tutto sotto controllo e puoi lasciarti andare. Con Murray Perahia invece ho lavorato tantissimo sull’analisi musicale: dallo studio dell’armonia e del contrappunto dipendono le scelte stilistiche e di interpretazione. Considero certamente una fortuna aver studiato con tali e tanti maestri, ognuno dei quali mi ha portato nella sua direzione. Il lavoro duro, ma appassionante, è stato mettere insieme il tutto».

La contraddistingue un uso calibratissimo del pedale…

«Busoni diceva che il pedale è l’anima del pianoforte. E in effetti il pedale aiuta lo strumento a tirar fuori il meglio di sé; ma l’uso va appunto calibrato, oltre che in base all’epoca della musica che si suona, in rapporto alla situazione acustica della sala da concerto, a seconda cioè che l’ambiente abbia più o meno riverbero. Dunque sì, il pedale ha un’importanza capitale nel mio lavoro».

Il 29 e 30 novembre con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai interpreta il Secondo concerto di Brahms: prevale l’impronta classica e beethoveniana oppure il superamento di quel modello in senso romantico?

«È una bella domanda. Curiosamente il Concerto n. 1 di Brahms è più romantico del n. 2, peraltro uno dei concerti più lunghi del repertorio. Qui incontriamo entrambe le attitudini: i primi tre movimenti sono tipicamente brahmsiani, richiedono un suono pieno, potente e rotondo, mentre l’ultimo presenta un’impronta molto più classica, preromantica, alle mie orecchie suona come uno scherzo di Mendelssohn. Tecnicamente è forse il punto più difficile da realizzare, occorre riprogrammare completamente le dita. Interpreto questo “ripiegamento” come un omaggio alla tradizione ma anche, più concretamente, il rilascio necessario dopo l’accumulo di tensione e densità dei movimenti precedenti».

Quale passaggio la affascina di più?

«Senza dubbio il dialogo con violoncello e oboe del terzo movimento. La sonorità del pianoforte si amalgama con l’oboe alla mano destra e con il violoncello alla mano sinistra: ne scaturisce qualcosa di meraviglioso. Un passaggio così non lo si trova in nessun altro concerto per pianoforte. A dirla tutta, è il punto focale di questa composizione».

Simone Solinas