Nell’ambito della rassegna Rai NuovaMusica è in programma per il 22 febbraio (Auditorium Rai, ore 20.30) un concerto dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da Nel Aziz Shokhakimov con importanti musiche del Novecento. Tra queste, il Concerto per flauto e orchestra di Goffredo Petrassi, rappresenta un’occasione per celebrare il centenario della nascita di Severino Gazzelloni.
Nelle vesti di solista è chiamata una delle molte punte di diamante di questa orchestra: Giampaolo Pretto. A lui abbiamo chiesto qualche approfondimento sul brano del compositore romano e una lettura – dalla distanza – sul prestigioso, indimenticato committente.
Maestro Pretto, Gazzelloni appartiene a una stagione nella quale spiccavano solisti-testimonial celeberrimi e sovrani assoluti di un pubblico ampio, popolare. Oggi lo scenario è cambiato, sono numerose le eccellenze differenti tra di loro ma equivalenti sotto il profilo del valore, senza assolutismi e idolatrie. Cosa ha rappresentato per la storia della musica per flauto e per lei personalmente quel momento?
I flautisti della mia generazione – anno più anno meno (io sono del 1965) – hanno tutti iniziato i propri studi in un contesto assolutamente dominato dalla figura di Gazzelloni, per lo meno in Italia. Egli rappresentava ai nostri occhi un’icona che spesso oscurava, o poneva in secondo piano, quelle doti flautistiche che nel tempo sarebbero state parzialmente messe in discussione. Per noi piccoli studenti, e non solo per noi, era il modello di un uomo carismatico, che sapeva rendere il flauto uno strumento di enorme popolarità: chiunque, di qualsiasi classe sociale, sapeva cosa fosse un flauto traverso perché il suo più grande paladino faceva regolarmente il testimonial in televisione e sui giornali di abiti e liquori, era spesso ospite di programmi di intrattenimento televisivo, duettava con Mina, suonava con batteristi come Tullio De Piscopo, dialogava con Pippo Baudo e così via… Voleva convincere tutto il mondo che il flauto è uno strumento bellissimo, suonando Vivaldi come i Beatles, e in ciò era assolutamente sincero: lui stesso era letteralmente innamorato del proprio strumento.
Ora tutto è diverso. I grandissimi solisti in ogni disciplina strumentale sono molti di più sul piano numerico; e per la massima parte vengono percepiti come elementi sì straordinari, ma sostanzialmente paritari, seppur diversi tra loro. Figure smaccatamente dominanti come la sua non esistono quasi più, se non come fenomeni estremamente effimeri nell’ambito del cross-over, anche perché credo sia finita l’epoca della mitologia personalistica riferita a singole individualità musicali, a favore di una fruizione del dato musicale più normale e concreto. E ciò, aggiungo, mi pare che in fondo sia un bene.
Che eredità lascia questo interprete per le generazioni di giovani flautisti?
La sua trasversalità ad ogni genere musicale. Gazzelloni è stato l’entusiasta ispiratore e dedicatario di centinaia di brani forgiati dalla cauta modernità come dall’avanguardia più estrema: tra questi vi sono tanto dei capolavori, come il Concerto di Petrassi o la Sequenza di Berio, quanto brani forse meno riusciti o importanti. Ma la cosa centrale della sua eredità è la coesistenza, nelle scelte di repertorio, dei linguaggi più eterogenei. Molti tra di noi sono cresciuti dando per scontato che si debba interpretare ogni tipo di musica, e confrontarsi con ogni tipo di linguaggio col massimo impegno e rispetto: ciò lo dobbiamo anche a lui.
Il Concerto di Petrassi, che interpreterà in occasione del centenario è stato battezzato dallo stesso Gazzelloni ad Amburgo nel 1961, sotto la direzione di Hans Schmidt-Isserstedt: quali novità idiomatiche caratterizzano il brano e dunque quale linguaggio flautistico si inaugura qui? Quale clima intende creare cogliendo il cuore estetico del brano e come lei reinterpreta l’opera oggi, valorizzandone la modernità?
Suonai per la prima volta il Concerto di Petrassi alla Biennale di Venezia nel 1999, incidendolo nello stesso periodo. Lo ripresi più volte in seguito, e ciò che mi ha sempre colpito è l’ascolto quasi ipnotico che riesce a creare in sala. Ricordo un’esecuzione molto emozionante al Konzerthaus di Berlino nel 2002, in cui il silenzio di questa enorme sala era tale che gli interventi concertanti di uno strumento spesso quasi inudibile come la chitarra prevista in organico risuonavano con un’esattezza impressionante. Venendo al merito: Petrassi mette una chitarra in una grande orchestra e riesce a farla sentire! Uno dei tanti motivi di interesse di questo Concerto infatti sta proprio nell’organico: non vi sono archi acuti o medi, ma solo violoncelli e contrabbassi. A tale colore scuro viene contrapposto il pizzico brillante di un’arpa e una chitarra. Si direbbe l’organico di una piccola orchestra da camera: e invece no, Petrassi smentisce quest’idea collocandovi il comparto ottoni di una sinfonia tardoromantica: quattro corni, tre trombe e tre tromboni. I legni sono rappresentati solo da due clarinetti e due fagotti. Infine, utilizza ben dodici diversi strumenti a percussione.
Uno dei punti di forza quindi sta nell’arredo timbrico della scena: ovvero nella ricerca della massima eterogeneità di colori e voci strumentali. Il linguaggio è sostanzialmente seriale ma non rigoroso, con qualche concessione a barlumi di esatonalità nella ricerca continua di una sottile eufonìa. Utilizza il flauto con un approccio quasi sacerdotale, di continue piccole cadenze-sermoni contrappuntate da fasi più concertanti.
Io cerco di affrontarlo assecondandone il carattere improvvisativo e rapsodico, alternandolo all’ipnosi dei momenti statici. La sceneggiatura è avvincente, con un paio di momenti di tensione creati da colate di dinamiche contrapposte (ad esempio un’esile nota lunghissima del flauto letteralmente attraversata da un blocco di fortissimo a piena orchestra, che passata la tempesta rimane appesa in modo imperturbabile a se stessa). A mio modesto avviso dopo quasi sessant’anni dalla prima esecuzione questo brano mantiene inalterato o addirittura rinforzato un elemento di grande fascino che potrebbe finalmente ricomparire nel linguaggio contemporaneo, dopo l’ubriacatura dell’eccessivamente facile: la ricerca di un messaggio più alto, basato su una forza di concezione e una qualità di scrittura senza compromessi e di grande personalità.
Gianni Nuti