Raggiungiamo James Conlon a Los Angeles, dove è immerso nelle prove di Carmen e Nabucco.
Maestro, dopo un anno come direttore principale, sotto quali aspetti è cresciuta l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e quali sono gli obiettivi per il futuro?
«Mio obiettivo e mia responsabilità è il mantenimento degli alti standard che l’Orchestra ha dimostrato nella sua storia. È indispensabile che continui a eccellere in ogni stile, dal barocco alla musica contemporanea, e in tutti i repertori della grande tradizione sinfonica occidentale. In un anno abbiamo solo iniziato a toccare tutti i temi che vorrei affrontare».
Nel concerto inaugurale eseguirete la Prima e la Terza di Brahms. Che cosa regala all’esecutore e all’ascoltatore questa full immersion?
«Mi ha sorpreso scoprire che negli ultimi anni l’OSN Rai abbia eseguito raramente le Sinfonie di Brahms, pagine che insieme alle composizioni di Beethoven, Haydn, Mozart e Schumann sono la colonna portante del repertorio sinfonico. Ecco perché ho deciso di presentare tutte le quattro Sinfonie di Brahms in questa stagione, offrendo a Orchestra e pubblico l’opportunità di approfondire il nostro rapporto con questo autore. Credo che le full immersion siano il miglior modo per studiare un compositore e per comprendere affinità e differenze tra i vari brani».
Negli ultimi tempi si assiste a un rinnovato interesse per i poemi sinfonici di Dvořák, autore che lei ama e che ha più volte diretto sul podio della Rai. Quali sono le principali motivazioni?
«Amo profondamente la musica di Dvořák e la eseguo regolarmente fin dagli inizi della mia carriera. Dvořák non sta tutto nelle ultime tre Sinfonie o nel Concerto per violoncello, ma anche nei tanti lavori ingiustamente dimenticati, come le prime Sinfonie, i lavori corali (lo Stabat Mater e il Requiem in particolare) e molti poemi sinfonici. La profonda espressività e il genio melodico fanno di Dvořák un compositore per tutti e per tutte le epoche. Il suo rapporto onnicomprensivo con l’umanità, Dio, la natura è sempre arricchente».
Perché ha scelto di abbinare L’arcolaio d’oro di Dvořák con Das klagende Lied di Mahler?
«Per la somiglianza degli argomenti. Entrambi raccontano l’omicidio di un parente – una sorella in Dvořák, un fratello in Mahler – motivato dall’ambizione per il potere. Tramite l’azione di un mago nell’Arcolaio e di un musicista nel secondo caso, le ossa dei defunti narrano la storia dell’omicidio e accusano i colpevoli: la verità è rivelata e giustizia viene fatta. Si tratta di due fiabe, tradotte in musica con linguaggi profondamente differenti, che possono essere viste come l’allegoria della facoltà del musicista-mago di illuminare la verità».
Das klagende Lied di Mahler viene spesso letto come un’allegoria politica, in cui un semplice menestrello con la sua arte riesce a rivelare un crimine e a rovesciare un potente corrotto.
«Penso che il grande fascino di questo precoce lavoro di Mahler stia nel carattere mitico dell’argomento, che è talmente ricco da consentire un’ampia varietà di letture complementari: psicologica, politica, spirituale… Quando la interpreto percepisco (come nel Ring wagneriano) che il complesso potenziale mitologico che contiene deve essere dispiegato e non ridotto da un approccio esclusivo che potrebbe limitarne l’ampia portata. Mi piace dire che Das klagende Lied è la Sinfonia n. 0 di Mahler: non ha un numero d’opera ma segna il vero e proprio inizio del suo lunghissimo percorso sinfonico. È straordinario il fatto che – a dispetto delle chiare influenze di Wagner e, in minor misura, di Bruckner – il linguaggio musicale di Mahler, all’età di 18 anni, sia già inconfondibile!»
Laura Brucalassi