La trasversalità di Stephen Hough: pianista, poeta, saggista e blogger

C’è più di un tocco d’Inghilterra nel concerto di cui vogliamo parlarvi. Non tanto , o non solo, per la citazione in locandina delle misteriose Enigma Variations, ma per la presenza in pedana di due Commendatori dell’Ordine dell’Impero Britannico, entrambi per meriti musicali. E se Mark Elder è quasi un’istituzione in patria, dove da diciotto anni riveste il ruolo di Direttore principale della Hallé Orchestra di Manchester (succedendo a Nagano e, indietro nel tempo, a Barbirolli e Beecham), Stephen Hough può dirsi una vera star internazionale, nota ovunque per le molte e premiate incisioni discografiche e per un’attività concertistica assiduamente sostenuta ed includente anche le collaborazioni con Rattle, Gergiev, Ashkenazy, Dutoit, Abbado o, in ambito cameristico, Isserlis, Bell ed Emerson Quartet. Tanto per esagerare. Ma Hough, classe 1961, vanta meriti che travalicano la dimensione pianistica. È attivo, infatti, come poeta, scrittore, saggista e blogger, ed il fatto che componga musica e diriga l’orchestra, a questo punto, rischia di non fare più sensazione. Lo hanno definito, per questa sua poliedricità, artista rinascimentale: ma a Hough, questo termine non piace: «Se per rinascimento intendiamo una fase di rinnovamento netto di idee e prospettive, allora accetto la definizione. Altrimenti, diventa esagerata. Ci sono tante cose ancora che vorrei saper fare, specie in ambito scientifico. Ringrazio chi ha pensato ad un paragone del genere, ma i geni sono un’altra cosa».

Sarà, ma “The Economist” ha inserito Hough tra i venti polymaths dei nostri tempi, ossia artisti in grado di eccellere in più campi del sapere. Un intellettuale trasversale ?
«La trasversalità, oggi, viene spesso sintetizzata in una parola, cross-over, che non amo affatto poiché l’associo a operazioni mediocri, perseguite per fare colpo sul pubblico, in cui semplicemente si assemblano elementi presi a caso. Più sano sarebbe accedere, con intelligenza, agli aspetti migliori di questa o quella cultura, senza prevenzioni».

Avendo eseguito e anche inciso tutto il Rachmaninov con orchestra, Hough ha naturalmente un’idea precisa del Concerto n.1, in programma a Torino con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai…
«Pezzo molto interessante, sul piano dello stile, perché l’autore scrisse le melodie, in una versione abbastanza elementare, quando era ancora studente. In seguito le rimodulò del tutto dopo aver già composto il Secondo ed il Terzo Concerto. Risultato? Una pagina che racchiude, insieme, freschezza d’ispirazione e maturità tecnica. Rachmaninov sa prendere il meglio, per altro, della grande tradizione romantica e risultare, nonostante ciò, sempre innovativo».

Di recente, con una metafora culinaria, Hough ha dichiarato di sentirsi attratto, nel proporre musica, dal “main course” più che dal “dessert trolley”. Ossia dal capolavoro più che dalla chicca ricercata…
«Suono di tutto e, quasi sempre, con piacere. Ma non posso non considerare che se Beethoven, Chopin e altri pochi eletti sono considerati punti di riferimento indiscutibili, be’ una ragione dovrà esserci. Ad ogni modo, se domani venissi in possesso di una sonata sconosciuta di un ancor più sconosciuto autore, e se la sonata mi piacesse, non avrei problema a proporla generosamente».

Come descriverebbe il compositore Stephen Hough al pubblico italiano, che già conosce ed apprezza il pianista?
«Non lo descriverei, perché la musica va ascoltata e non spiegata a parole. È tutta una questione di impatto emotivo, e questo vale sia che la si scriva, sia che la si esegua».

Fare il musicista, per Hough, è un mestiere o una vocazione?
«”Mestiere” sottintende un approccio troppo materiale. “Vocazione” è qualcosa di esageratamente specifico. Diciamo, allora, che è un privilegio, tenuto conto di come si finisca col guadagnarsi da vivere divertendosi».

Stefano Valanzuolo