In un programma di concerto complessivamente votato alla celebrazione di sonorità e suggestioni orchestrali poco frequentate, Tre quadri di Francesco Filidei spicca come novità assoluta, esempio di quella creatività da terzo millennio che al Novecento ormai storico di Stravinskij, Messiaen e Donatoni certamente deve qualcosa in termini di disciplina e vocazione. Da questi presupposti trae fascino e coerenza lo stimolante appuntamento disegnato dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai per il prossimo 12 novembre, nel quale i tre autori citati – appunto – ricorrono accanto al quarantasettenne compositore pisano. Sul podio sale Tito Ceccherini, specialista assodato per l’ambito moderno e contemporaneo; il solista è Maurizio Baglini, cui spetterà il privilegio di tenere a battesimo Tre quadri per pianoforte e orchestra.
«Io e Baglini – spiega Filidei – ci conosciamo da sempre e da un bel po’ ci ripromettevamo di affrontare un progetto importante insieme: esserci riusciti, finalmente, rappresenta un motivo di soddisfazione in più. Così è stato naturale, nello scrivere Tre quadri, riferirmi alla tavolozza di colori, per esempio, di cui dispone Maurizio».
Tre quadri, di fatto, è un vero concerto per pianoforte e orchestra…
«Sì, lo è per struttura, a cominciare dalla scansione classica in tre movimenti, e per il ricorso a vari elementi formali che sono propri del genere. Ma i tre capitoli del racconto sono, allo stesso tempo, immagini compiute e autonome, in grado di vivere di vita propria: il primo e il terzo numero, infatti, sono certamente eseguibili anche fuori dal contesto complessivo».
Il ricorso al termine “quadro” non è casuale…
«Sottende un concetto, un’immagine attraverso la quale io amo ritrovare il senso del rapporto tra figura e paesaggio che, nella mia musica, resta essenziale. Così come nel Concerto per flauto e archi, anche qui l’orchestra sembra illuminare di colori sempre diversi la veste del solista, il cui corpo, la cui fisicità voglio dire, resta però saldamente al centro della vicenda».
Si può dire che Tre quadri rappresenti un punto di evoluzione nella sua ricerca linguistica?
«Diciamo che porta avanti un percorso di approfondimento stilistico intorno alla scrittura per strumento solista. Un percorso che mi attira molto perché offre – come dicevo prima – la possibilità di recuperare il rapporto tra musica e persona, spesso trascurato a beneficio di altri aspetti squisitamente formali».
Proviamo a fare una passeggiata veloce attraverso i tre quadri del racconto…
«Il primo è quello più movimentato, scivola continuamente da uno stato emotivo all’altro. Il secondo è una berceuse quasi passacaglia, la cui costruzione inganna: ha una struttura ferrea, direi algoritmica, eppure all’ascolto risulta aerea, sfuggente. Il terzo quadro, che riprende un mio lavoro precedente, si apre con la citazione del Quinto Concerto beethoveniano, ma poi cambia tutto…»
Cambia in che senso?
«Il primo accordo è quello dell’Imperatore, sì. Poi, però, al posto degli arpeggi, compare una sola nota ripetuta. A partire da quel momento, si assiste alla demolizione del modello di partenza. Anche se “distruggere” – si fa per dire – un grande “distruttore” come Beethoven è sempre molto complicato. Divertente, ma complicato».
Quanto conta la matrice culturale italiana nella sua scrittura?
«Molto, credo. Se parliamo di Tre quadri, ho la sensazione che il pezzo, pur nella sua evidente dimensione strumentale, abbia qualcosa a che fare addirittura con il Trittico pucciniano. Per il modo di raccontare, intendo».
Lei ha scritto questo lavoro, così come il Requiem (eseguito per la prima volta qualche giorno fa, in Portogallo), durante il periodo del lockdown. Cosa compare, nella musica, di quella esperienza?
«Non lo so. Per adesso, forse, ancora niente. È troppo presto. Abbiamo vissuto e, in parte, stiamo vivendo una fase storica epocale, i cui effetti andranno metabolizzati con molta calma e con spirito riflessivo prima di poter essere affidati ad una forma espressiva compiuta. Nei primi giorni di isolamento ho composto poca musica: scrivevo piccole cose, più che altro per scaricare la tensione. Poi, piano piano, ho ritrovato la forza. Ma, forse, sarà solo nel mio prossimo lavoro, ispirato a La maschera della morte rossa di Poe, che riuscirò a tradurre in musica i segni di quell’esperienza».
Stefano Valanzuolo