La profonda umanità della Messa in do minore di Mozart.
Intervista a Omer Meir Wellber

Affermato a livello mondiale, presenza costante nelle sale da concerto e nei teatri d’opera più prestigiosi in Europa e non solo – in autunno era al MET di New York –, prossimo a ricoprire le cariche di direttore principale della BBC Philharmonic e di direttore musicale del Teatro Massimo di Palermo, il direttore israeliano Omer Meir Wellber il 28 e il 29 marzo salirà ancora una volta sul podio dell’OSN Rai per dirigere la Messa in do minore di Mozart.

Finita di comporre nel 1783 e considerata, insieme al Requiem, l’apice delle sue opere religiose, la Messa in do minore vide la luce a Vienna, quando la carriera di Mozart presso l’arcivescovo Colloredo a Salisburgo era terminata. È dunque l’unica Messa scritta nella nuova situazione di compositore libero.

 Maestro Wellber, ci sono segni di questa libertà nuova nella scrittura?
«Si tratta del nuovo status di Mozart, quello di “libero professionista”. Mozart si è affrancato da un sistema, ma sostanzialmente la sua scrittura possiede sempre una libertà interiore, anche quando è dettata da una commissione. Ciò che cambia è la condizione esterna da cui scaturisce un’opera. Se prima il comporre era un gesto conseguente a una richiesta, ora è un gesto autonomo, in un certo senso un gesto romantico. È la totale libertà di decidere se, quando e perché realizzare un’opera. Tanto che Mozart si è sentito libero persino di non completarla, per le circostanze esterne e per i suoi stessi nuovi interessi».

In effetti manca una parte del Credo e l’Agnus Dei è del tutto assente…
«Il fatto che sia un’opera scritta non completamente non significa che sia un’opera incompiuta. Nella scrittura e nelle bozze era presente tutto ciò che Mozart aveva deciso di realizzare. Con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai eseguiremo l’edizione perfezionata nel 2005 da Robert Levin, che è molto eseguita in Germania, e che in Italia è ancora inedita».

Quali eredità del passato rivela quest’opera e quali lascia nel futuro?
«Sicuramente in Mozart c’è la summa di tutto quanto era già stato compiuto, da Bach in poi. Ma ciò che si avverte di più in questa Messa non è tanto l’eredità di un passato lontano, quanto la fratellanza con il presente, soprattutto con l’Haydn sacro, con cui condivide una tensione verso ampie proporzioni. E per quanto riguarda il suo lascito al futuro, intanto la scelta della tonalità, il do minore, generalmente affidato a un Requiem, conferisce al sentimento religioso un colore scuro, che va oltre la pura liturgia e che apparterrà al mondo romantico; e un profilo operistico che arriva direttamente al Verdi sacro».

Nel 2017 lei ha pubblicato un libro intitolato La paura, il rischio e l’amore – Momenti con Mozart. Si riferiva alla trilogia operistica Mozart-Da Ponte. Paura, rischio e amore valgono anche per l’opera sacra?
«Come dicevo, in questa Messa traspare molto la dimensione operistica di Mozart, quindi sì, emergono anche qui i sentimenti umani, prima ancora che quelli religiosi. Personalmente cerco sempre di evitare, quando affronto opere così dense, di leggervi i miei sentimenti, o di provare emozioni in prima persona. Preferisco osservare e fare da tramite: saranno gli altri a provarle. C’è sempre un dato universale che emerge, questo significa “restituire” un’opera. Lo stesso chiedo all’orchestra che lavora con me: una qualità che in genere è molto naturale nelle compagini liriche, ma che nelle sinfoniche italiane è presente, e che ho sempre ritrovato nei vari incontri con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai: la flessibilità, la capacità di mettersi a disposizione, tanto dei cantanti quanto del pubblico».

Monica Luccisano