Molti, giustamente, ricordano ancora oggi Nino Rota come “il musicista di Fellini”, a testimoniare la solidità di un rapporto professionale e intellettuale straordinariamente proficuo. Ciò non toglie che Rota sia stato anche il musicista di Visconti, Monicelli, Lattuada, Comencini, Zampa, Soldati, Steno, Wertmüller, Petri, Zeffirelli e, all’estero, di René Clement, King Vidor e Francis Ford Coppola; a quest’ultimo, in particolare, è legata la conquista dell’Oscar per Il padrino – Parte II. Scrisse varie colonne sonore per i film di Totò e lavorò a più riprese con Eduardo De Filippo (Lo scoiatolo in gamba, Napoli milionaria).
Ma è Federico Fellini che viene celebrato in questo 2020 ed è a lui, nel centenario della nascita, che l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai dedica attenzione speciale. Ci perdoneranno gli altri grandi registi citati, allora, se ci soffermeremo stavolta sulla sola produzione felliniana di Rota, che – d’altra parte – è assai ampia e significativa: delle quasi centoquaranta musiche da film firmate dal compositore, le diciassette consegnate al regista riminese brillano come esempio di sinergia forse irripetibile. Al punto che Fellini, negli anni Settanta, avrebbe addirittura ammesso di essersi lasciato ispirare, qualche volta, dalle melodie dell’amico e partner.
Dopo Lo sceicco bianco (accolto tiepidamente) e I vitelloni (Leone d’argento a Venezia), Fellini volle per la terza volta Nino Rota al proprio fianco in occasione del film La strada. Correva l’anno 1954 quando la pellicola, con Anthony Quinn e Giulietta Masina, uscì nelle sale sollevando scalpore e successo. Mario Soldati, dopo averlo visto, scrisse: «La strada di Nino Rota è un capolavoro. Il film di Fellini è, forse, soltanto il libretto di quel capolavoro». Un’affermazione persino ingenerosa nei confronti del regista, ma in grado di riaffermare la funzione essenziale svolta dalla musica di Rota nei film: una funzione né didascalica né tanto meno decorativa, ma essenziale in chiave drammatica e nobile nelle forme. Il balletto La strada – in programma il prossimo 8 ottobre all’Aditorium “Toscanini” – sarebbe nato molto dopo il film, nel 1966, e rappresentato per la prima volta alla Scala su coreografie di Mario Pistoni: in esso non si citano semplicemente le musiche scritte per lo schermo, ma si allude, in misura più ampia, ad un universo sonoro “felliniano” entrato nel frattempo a far parte, in modo consapevole, della cifra connotante di Rota. La strada, inteso come film, suscitò non poche polemiche in un Italia ancora troppo fedele al neorealismo, ma valse a Fellini clamorosa popolarità internazionale, suggellata, nel 1957, dall’Oscar al miglior titolo straniero.
La collaborazione tra Rota e Fellini sarebbe proseguita senza soste fino al 1978 (Prova d’orchestra), ossia fino alla morte del compositore. Ermanno Comuzio, storico del cinema, e studioso di colonne sonore, rileva come spesso Fellini «…costringesse Rota ad inventare le musiche che lui stesso aveva già in testa. Rota, insomma, metteva in bella le indicazioni del regista, e si faceva inghiottire da lui». Ma ciò vale per i film del primo periodo – Lo sceicco bianco, I vitelloni, Le notti di Cabiria – poiché in Prova d’orchestra, e prima ancora nel Casanova, l’apporto del compositore risulta invece cospicuo e decisivo proprio in termini narrativi, secondo le ammissioni dello stesso Fellini.
In questo senso, il programma del concerto del 14 ottobre (preceduto proprio dalla proiezione di Prova d’orchestra e affidato ad un direttore importante come Marcello Rota) fornisce un interessante approfondimento intorno all’evoluzione stilistica di Nino Rota, che non fu soltanto un “compositore da film” (ferma restando la nobiltà del ruolo) ma, con il suo catalogo sconfinato – comprendente moltissimi lavori da camera, quattro sinfonie, tre concerti per pianoforte e undici opere incluso quel piccolo gioiello intitolato Il cappello di paglia di Firenze – un compositore tout court. “Colto”, avrebbe azzardato qualcuno, facendo arrabbiare Rota, il quale era solito dire: «Non credo a differenze di ceti e di livelli nella musica: il termine “musica leggera” si riferisce solo alla leggerezza di chi l’ascolta, non di chi l’abbia scritta». Nell’ambiente musicale, veniva chiamato “il cinematografaro”, con un pizzico di malsano snobismo e chissà quanta malcelata invidia. Ce ne fossero, di autori così.
Stefano Valanzuolo