La mia “Agnese” si svolge in un mondo leggero e ironico.
Intervista a Leo Muscato

Il 12 marzo debutta al Teatro Regio, in prima assoluta in tempi moderni, Agnese di Ferdinando Paer. È la storia di Uberto, padre di Agnese, che impazzisce di dolore credendo morta la figlia, ma il lieto fine è assicurato.
Così il regista Leo Muscato ci racconta la sua “visione” di quest’opera.

Un uomo pazzo di dolore che disegna sepolcri: che personaggio è Uberto?
«Al contrario di quanto si possa immaginare, la pazzia di Uberto non è poi così visibile. Nella prima scena sembra più confuso che matto. Poi tutti cominciano a trattarlo come tale. Verrebbe anche da chiedersi se non sia una scelta più o meno conscia quella di “diventare” matto, come ad esempio la signora Beatrice del Berretto a sonagli di Pirandello, che soltanto da “pazza” può dare del becco al suo scrivano Ciampa. L’affronto ricevuto da sua figlia, ha fatto impazzire Umberto fino al punto da dover inventare una nuova sorte per la povera ragazza e ha cominciato a immaginarla morta. I disegni che lui fa sui muri della sua cella hanno qualcosa di ossessivo. Io ho sempre immaginato che avesse a che fare con il suo desiderio di immaginarla morta, piuttosto che saperla disobbediente».

Come saranno scene e costumi?
«Capita raramente, ma qualche volta capita di avere un’intuizione già al primo ascolto. Da subito mi è stato chiaro che l’opera ci permetteva di creare un mondo dentro cui poter fare accadere qualunque cosa. Un mondo magico, che consentisse però delle qualità relazionali concrete, realistiche. D’altronde il testo stesso prevede molti spazi diversi e concreti. Bisognava solo trovare il modo di realizzarli senza adottare una cifra naturalistica che avrebbe compromesso il desiderio di raccontare questa storia come fosse una favola con tanto di morale. Abbiamo pensato a dei micro-mondi, a tante piccole scatole apribili simili a dei carillon in ciascuna delle quali trovare/scoprire un ambiente diverso, fatto di lucine e fondali che ricordano un po’ i teatrini di carta dell’inizio del Novecento. Sembrano dei carillon che però, se li guardi da una prospettiva diversa, assomigliano di più a delle scatole di latta di antichi medicinali. I costumi hanno la funzione drammaturgica di creare un mondo leggero e molto ironico. Paër ambienta la storia nel suo mondo contemporaneo, creando una qualità di relazione di vicinanza fra la storia narrata e i personaggi sulla scena. Noi abbiamo preferito lasciare una distanza temporale, e abbiamo inventato un’epoca che potrebbe vagamente ricordare gli inizi del XX secolo. Ciò ci ha permesso di creare delle figure più lievi e più aderenti al mondo giocoso che volevamo abitare».

Susanna Franchi