Il Teatro Regio inaugura la stagione 2019-2020 con un nuovo allestimento de I pescatori di perle di Georges Bizet, affidando regia, scenografia, costumi, coreografia e luci a Cécile Roussat e Julien Lubek, due spumeggianti e poliedrici artisti francesi la cui formazione, partita dalla scuola di mimo di Marcel Marceau a Parigi, ha toccato anche il teatro e le arti della marionetta, del circo e dell’illusione. Oltre a creare spettacoli con la loro compagnia Le Shlemil Théâtre, firmano la messa in scena di opere liriche, tra cui Dido and Enea, rappresentata a Torino nel 2015.
I vostri allestimenti sono sempre pieni di magia e di fantasia, e lo spettatore si trova immerso in un’atmosfera incantata: volete parlarcene?
«Innanzitutto non potremmo accettare di allestire un’opera che non trova risonanza nella nostra visione del mondo e della poesia. Inoltre, il nostro obiettivo è quello di aprire le porte dei teatri d’opera ad un pubblico il più vasto possibile. È per questo che cerchiamo di dare alle nostre realizzazioni una dimensione spettacolare, a tratti anche divertente; siamo sempre orgogliosi di vedere i giovani o i neofiti rimanere incantati dall’opera. Allestire un’opera ci appassiona, ed è una grande sfida in termini di relazioni umane: la nostra caratteristica è fondere varie discipline, facendo sì che acrobati, ballerini e mimi possano comunicare e condividere la loro energia fisica con i solisti; dobbiamo inoltre riuscire a far scoccare la scintilla magica capace di far convergere questi talenti e il progetto che abbiamo in testa. Secondo noi, uno spettacolo è un lavoro collettivo, un momento di condivisione, una festa, un tutto coerente, che deve toccare lo spettatore con la forza delle emozioni che si sprigionano».
Definite in due parole I pescatori di perle?
«È una fiaba romantica che si muove con sensualità in un Oriente fantastico, specchio dei nostri sogni, per farci gustare il sapore inafferrabile del ricordo; certo datato nel tempo, ma di portata universale, ancora oggi».
Come vedete i protagonisti dell’opera?
«Per noi sono sia archetipi sia personaggi reali. All’interno di tipologie generiche, ciascuno di loro mette a nudo fragilità e debolezze e incarna una propria umanità. Vediamo in essi anche l’espressione delle diverse età della vita in un intrecciarsi di ricordi, fantasie, audacia e rassegnazione».
Come si coniugano l’esotismo e l’Oriente immaginario della storia con la vostra fantasia?
«L’emergere dei quattro personaggi, con le loro forti emozioni, sul popolo di pescatori ci ha suggerito di trarre ispirazione dalla tradizione delle miniature indiane: il nostro allestimento propone l’opera come una serie di quadri – ora più luminosi, ora in chiaroscuro – che mettono in risalto l’evoluzione psicologica dei protagonisti nelle diverse fasi dell’azione. È come se i ricordi dei protagonisti si esprimessero sotto forma di dipinti nei quali il popolo-coro funge da sfondo. Due elementi saranno onnipresenti: l’acqua, rappresentata dagli specchi, e i tetti a punta evocanti un’Oriente sensuale magico e misterioso, come tante alcove segrete dove si racconta la storia».
E il rapporto tra la dimensione sacra e quella umana?
«Quando l’amore sensuale e il divino si uniscono, quando le promesse agli dèi protettori si confrontano con il libero arbitrio umano, è questo contrasto tra regola e necessità, tra sovrannaturale e terreno, che arricchisce l’opera di una dimensione altra. Così, lasciamo il particolare per entrare nell’universale, nel compiersi di un destino degno della tragedia greca e al tempo stesso profondamente toccante e lacerante».
Donatella Meneghini