1841. Giuseppe Verdi riceve un libretto già rifiutato sprezzantemente da un collega e ne ricava un capolavoro: Nabucco. L’opera, un trionfo sin dalla prima rappresentazione, continua ad entusiasmare e commuovere i suoi ascoltatori, e per questo torna sul palcoscenico del Teatro Regio dal 12 al 22 febbraio in un nuovo allestimento coprodotto con il Teatro Massimo di Palermo. La regia è affidata ad Andrea Cigni, che si presenta per la prima volta al pubblico torinese con un progetto molto ambizioso.
Maestro Cigni, come definirebbe la sua attività di regista?
«Non mi reputo un regista di tradizione, ma neanche di provocazione; sono uno che studia, si pone delle domande e le pone al pubblico. Non m’interessa dare soluzioni, ma porre questioni. Mi piacerebbe che il pubblico fosse la quarta gamba di un tavolo che è “l’opera”, cioè musica-testo-azione e la partecipazione del pubblico nella creazione del senso di ciò che si rappresenta».
A Torino propone una nuova regia di Nabucco…
«La prima volta che mi sono confrontato con quest’opera è stato nel 2014, per OperaLombardia. Si tratta quindi di un lavoro che conosco e che ho avuto modo di approfondire e di mettere a fuoco sotto tanti aspetti. La regia attuale nasce dalla volontà del Teatro Massimo di Palermo di fare un Nabucco rappresentativo della nostra tradizione melodrammatica, per portarlo in tournée in Giappone; a questo progetto ha aderito anche il Teatro Regio di Torino, che è diventato capofila. In questo allestimento abbiamo messo molto del gusto italiano nel fare opera. Lo si nota nella scelta dei materiali e delle pitture, nella scenotecnica come nei costumi».
Che domande si è fatto rileggendo questa grande creazione verdiana?
«Mi sono chiesto se questa fosse un’opera risorgimentale (o se Verdi l’avesse concepita come tale), e la risposta, per quanto mi riguarda, è no: non c’è niente di risorgimentale. Mi sono soprattutto chiesto se tutta la vicenda di Nabucco potesse essere ridotta al contrasto tra oppresso e oppressore, che in una regia “moderna” può equivalere a “ebreo e nazista” o “profugo e scafista”. Il contrasto in questi termini non mi interessava. Verdi era un uomo di teatro che conosceva perfettamente la società in cui viveva: una società in grande fermento, con uno sviluppo industriale molto forte, che ha generato una serie di correnti culturali e di posizioni politiche. Ho interpretato il contrasto tra oppresso e oppressore proposto Verdi come un contrasto culturale, o meglio, un contrasto tra una cultura generatrice di tante altre culture, quella ebraica, e una cultura incentrata sul potere temporale, quella babilonese».
Come si presenterà in scena tale contrapposizione?
«L’aspetto visivo sarà di grande impatto. Sarà una messinscena essenziale negli spazi, per certi versi astratta, ma anche ricca di materia e atmosfera. Con lo scenografo Dario Gessati e il costumista Tommaso Lagattolla abbiamo lavorato molto sui materiali, sui tessuti e sul richiamo ad alcuni artisti contemporanei, come Jannis Kounellis. Tutto quello che rappresenta il potere temporale è carico di metalli preziosi, e risulta forse più affascinante del mondo della cultura, che abbiamo rappresentato con carta e metalli meno pregiati. Abbiamo esasperato la ricchezza dei costumi babilonesi e la semplicità dei costumi degli ebrei, ma alla fine sarà questa semplicità a convincere, a risultare più immediata e autentica. E poi ho centrato l’azione su alcuni oggetti simbolo (come il libro) e sul dramma tra i protagonisti che è il cuore dell’azione in Nabucco».
Per molti Nabucco è soprattutto un’opera monumentale, qual è la sua visione?
«Per me il grande contrasto fra culture fa da cornice a un dramma borghese con dinamiche tra padre, figlia e figliastra e tra le due sorellastre. Abigaille è un personaggio incredibile: una donna figlia di schiavi adottata da un re. È assolutamente stimolante analizzare il suo senso di frustrazione, la sua smania di affermare sé stessa a discapito degli altri, anche degli affetti, del bene, dell’amore. Alla fine questo senso di frustrazione, questo grande senso d’impotenza che deriva dal non essere in grado di capire i valori reali (come invece, più intelligentemente, fanno la sorella e il padre) fa sì che Abigaille scelga di uccidersi».
Dentro l’opposizione tra cultura e potere temporale, come si colloca quello che per molti è il culmine dell’opera, il coro Va’ pensiero?
«Ho pensato che ci fosse semplicemente una cosa da fare: mettere la “p” di “pensiero” in maiuscolo. Intendo “Pensiero” come ragione, cultura, conoscenza. Ho sempre un grande rispetto per il libretto e per la musica, e con questo semplice cambiamento diventa tutto ancora più affascinante: il Pensiero, la Ragione si posa sui clivi e sui colli, arriva ovunque, come se tutta la terra fosse fortunatamente invasa dal pensiero e non solamente da un potere temporale, da una corona, da uno scettro, che sono concetti vuoti. Un pensiero, una conoscenza, un sapere, possono essere tramandati e non si esauriscono con la vita di un individuo. Il potere temporale è limitato nel tempo, legato alla durata della vita di un re. In questa produzione il Pensiero, il Sapere è simboleggiato dalla scrittura, dalla carta, dai libri, che i babilonesi cercano di distruggere ma che un bambino salva. Salva un libro e questo libro ce lo portiamo fino alla fine: è la memoria, quello che siamo in grado di tramandare agli altri, pur nel fasto e nella meraviglia».
Liana Püschel