«A lungo – spiega Pier Luigi Pizzi – mi sono tenuto alla larga da tanto repertorio italiano del primo Novecento: in generale non amo il verismo, ammesso che ce ne sia davvero nel melodramma. Nel 2009, però, ho incontrato Madama Butterfly, ed è stata, per me, una scoperta bellissima».
Dell’opera pucciniana, il glorioso regista firma – come d’abitudine – anche scene e costumi.
Un marchio di fabbrica?
«È questo il mio modo di procedere: un unico angolo visuale per ogni aspetto del racconto, così da fonderne gli aspetti etici ed estetici».
Come descriverebbe Madama Butterfly?
«Come una storia di inganni e contrapposizioni. Da un lato Pinkerton, l’americano cinico che mette in scena la farsa del matrimonio sulla pelle di Cio-Cio San; dall’altro la ragazza, figlia di una cultura “altra” e inconciliabile, che cade nel baratro per rimanere coerente ai propri principi e ai propri sentimenti».
È un lavoro dal quale la categoria maschile non esce affatto bene…
«Si tratta decisamente di un’opera al femminile: Suzuki, per esempio, nel mio allestimento aiuta la sua padrona a morire, con un atto estremo di solidarietà pietosa».
Proviamo a descrivere la scena dello spettacolo?
«All’inizio troveremo tutti quei punti di riferimento che in Butterfly è lecito attendersi: ma attenzione, non sto rendendo omaggio ad un esotismo da cartolina ma, piuttosto, provo a dare allo spettatore l’immagine di un mondo artificiale, costruito da Pinkerton, con la complicità del viscido sensale, a proprio uso e consumo, destinato a dissolversi di lì a breve. Già nel secondo atto, infatti, l’elemento oleografico scompare, precipitando la vicenda in atmosfere malinconiche».
Che cosa rappresenta il suicidio di Cio-Cio San, nella sua visione dell’opera?
«Un atto di coerenza estrema e di grande dignità, da parte di una donna che ha visto spegnersi il sogno sul quale aveva impegnato forza e passione. Il matrimonio, per Cio-Cio San, non è infatti una commedia, ma una conquista, sociale e personale».
I costumi tradizionali giapponesi lasciano spazio, nel secondo atto, ad abiti di foggia occidentale. È Butterfly che prova a interpretare il ruolo di donna americana?
«Lei non recita, lei crede sinceramente in quello che fa. Ma si ritrova inevitabilmente sola, mentre chiunque intorno si dilegua: Pinkerton, ma anche i tanti parenti petulanti, che sono solo figuranti di una messinscena penosa».
La regia ambienta la trama negli anni Venti del secolo scorso: per un motivo preciso?
«Mi interessava puntare la lente su un’epoca caratterizzata da cinismo maschilista, senza scrupoli e morale. In fondo, a vedere cosa succede ancora con il turismo sessuale, la piaga non si è estinta: oggi, magari, non ci si sposa, ma la sostanza resta squallidamente la stessa».
Stefano Valanzuolo