Jordi Bernàcer si confronta con l’enigma irrisolto di Turandot

Spettacolare e crudele, Turandot, l’opera incompiuta di Puccini, torna dal 22 aprile sul palcoscenico del Teatro Regio nell’allestimento fortemente onirico di Stefano Poda.
Sul podio ci sarà il direttore spagnolo Jordi Bernàcer, dal 2015 Resident Conductor dell’Opera di San Francisco e ospite abituale di importanti teatri come il Real di Madrid e il Colón di Buenos Aires.

Maestro, come ha avuto inizio la sua carriera musicale?
«Da piccolo studiavo il flauto e frequentavo concerti con la mia famiglia. Il mio interesse per la direzione d’orchestra invece nacque quando vidi il documentario The making of West Side Story con Leonard Bernstein. Fui affascinato da quell’uomo, dal suo carisma, dal modo in cui interagiva con i musicisti: capii che il lavoro del direttore non si svolgeva solo il giorno del concerto! In quel momento nacque la mia passione per la direzione d’orchestra. Ero giovanissimo… creai un gruppo da camera con amici e cominciai a dirigere».

Al Regio debutterà con Turandot di Puccini, un autore che l’ha accompagnata sin dai suoi esordi…
«Nel corso della mia carriera ho avuto la fortuna di dirigere molte opere di Puccini: tra le prime ci sono state Tosca e Manon Lescaut. Credo che i lavori di questo autore siano ancora molto attuali, come tutti i grandi capolavori della musica e dell’arte in generale, perché trascendono le mode del loro tempo. In Puccini forse questo non è scontato perché muove i primi passi nel Verismo, con uno stile radicato nella sua epoca, ma poi riesce ad andare molto più in là. In Turandot, ad esempio, troviamo il più puro modernismo degli anni Venti».

Certe idee dell’opera non sembrano forse “rubate” ad altri grandi compositori del tempo?
«In effetti ci sono passaggi molto vaporosi in cui sembra di ascoltare Debussy, altri momenti ricordano Stravinskij; nelle masse corali, poi, c’è l’eco della grande tradizione russa, in particolare di Rimskij-Korsakov… Ma in ogni momento ascoltiamo Puccini, la sua presenza è sempre latente, perché i suoi non sono furti, sono conquiste frutto di un’evoluzione personale. Certe cose si trovano già in La fanciulla del West o in Gianni Schicchi. Puccini sviluppa un modernismo molto personale, pur essendo sempre attento a tutto quello che avviene nel mondo musicale contemporaneo».

Uno degli aspetti più moderni di Turandot è l’orchestra: in nessun’altra opera Puccini ne usò una così grande e varia…
«Puccini era un orchestratore formidabile e in Turandot fece un lavoro straordinario. Ordinò addirittura la costruzione di strumenti, come lo xilofono basso, per ottenere una sonorità esotica particolare, dimostrando la sua grande creatività. L’orchestra è enorme, ma questo non significa che la sua presenza sia sempre pesante. I grandi orchestratori sono come gli alchimisti che nei loro laboratori controllano il peso di ogni elemento; allo stesso modo i compositori tengono sotto controllo la massa sonora per non coprire mai le voci né dei solisti, né del coro».

Come nella prima del 1926 diretta da Toscanini, anche al Regio l’opera sarà proposta senza il finale di Franco Alfano. Cosa ne pensa?
«Ormai siamo così abituati alla Turandot con il finale di Alfano che l’ascoltiamo e ce lo godiamo senza preoccuparci di chi l’abbia scritto. Il melomane l’ha già incorporato nel suo DNA. Proprio perché ormai sappiamo a memoria cosa accade, mi sembra interessante concludere l’opera con la morte di Liù perché tutto rimane sospeso, si mantiene l’enigma, siamo costretti a farci domande, riflettere, cercare significati. In un qualche modo si lascia a noi il compito di trovare la soluzione al problema della trasformazione di Turandot attraverso l’amore. In più, con questo finale l’opera si chiude con una parola bellissima: “poesia”».

 Liana Püschel