Stefano Poda, ormai torinese ad honorem, ripropone al Teatro Regio, dal 22 aprile al 5 maggio, la “sua” Turandot di Puccini che ha debuttato nel 2018 e per la quale ha curato regia, scene, costumi e luci.
Riprendere uno spettacolo dopo quattro anni, e con altri interpreti, significa modificarlo?
«Vuol dire ritrovare e approfondire quello spazio dell’anima. Diciamo che si tratterà di far entrare in quel “viaggio” altre anime: altri interpreti e altro pubblico».
Il punto di partenza del suo spettacolo è “Turandot non esiste”? Cosa significa?
“Puccini lo fa ripetere a Ping, Pong, Pang. Ecco: Turandot non esiste, è una “creazione” di Calaf che ossessivamente vive replicata in ogni esperienza e in ogni donna che abita il palcoscenico. Ognuno di noi costruisce un oggetto d’amore, ma poi ci accorgiamo che chi amiamo non corrisponde a ciò che abbiamo idealizzato. Solo Liù accetta la vita e accetta di donarsi; forse per arrivare ad essere Liù prima bisogna già essere stati Turandot. Calaf ha paura, Turandot ha paura del confronto, gli enigmi sono prove. Vorrei che lo spettatore potesse identificarsi con tutti i personaggi, non che una donna si identifichi con Liù o un uomo con Calaf: tutti siamo tutto, con i nostri “io” successivi».
Oriente-Occidente, Uomo-Donna, Giorno-Notte: Turandot si può raccontare come un’opera di mondi contrastanti?
«Lo avevo definito a suo tempo “poema dell’Alterità”. Si tratta del confronto con l’altro da sé e con il “fuori da sé”, che può essere un processo naturale, doloroso, felice o traumatico. È la parte irrisolta di noi stessi? Turandot come simbolo dell’Altro, dell’Alterità, di quello che ci (de)limita. Questa barriera, prima ancora che negli Altri, si trova dentro di noi stessi: è come se ognuno di noi convivesse con un proprio Altro, che per crescere bisogna quotidianamente o definitivamente uccidere».
Quale peso hanno i danzatori nel suo spettacolo?
«Non faccio distinzione tra danza, luce, costumi, scene, in pieno sfondamento interdisciplinare. La danza è l’espressione più pura che crea una drammaturgia di immediata evidenza, senza bisogno di concetto… I danzatori sono come l’anima profonda che seguono tutta la curva frammentaria della narrazione (l’impulso, la frenesia, la calma, la meditazione, il concetto di multiplo…). Stabiliscono una connessione tra “sentire” e corpo senza passare per la razionalità».
Che cosa significa terminare l’opera con il funerale di Liù?
«Se Turandot è l’Alterità conflittiva, Liù è la chiave per risolvere tale contrasto; dal punto di vista narrativo, uccidendosi Liù dona il suo contatto sano con la vita, con la maternità, con tutta una sfera dell’istinto ignota all’Altra. Senza accorgersene Puccini celebra con Turandot il funerale della grande opera di repertorio. Turandot non è quindi solo l’ultima opera di Puccini, ma anche l’Ultima Opera: curiosamente, incompiuta. Non finita e dunque In-finita».
Susanna Franchi