«È la prima volta – spiega Antonio Florio – che dirigo L’Orfeo, ma al Monteverdi teatrale mi sono già avvicinato con L’incoronazione di Poppea. Sono due titoli assai distanti per approccio ed esiti, sembrano scritti da autori diversi».
Può spiegarci cosa intende?
«L’Orfeo appartiene ad una fase monteverdiana giovanile e resta parzialmente in bilico tra stile antico (quello della cosiddetta “prima pratica”) e innovazione barocca (la “seconda pratica”). In quest’opera troviamo spesso accordi orchestrali scritti in dissonanza sulla linea di canto, tuttavia l’effetto finale è di assoluta perfezione. Formalmente, L’Orfeo anticipa alcuni tratti che saranno sviluppati, in seguito, pure in ambito madrigalistico, ma ciò non toglie che esso suggelli, emblematicamente e prima di tutto, la straordinaria esperienza rinascimentale italiana».
Monteverdi utilizza un’orchestra insolitamente grande per l’epoca
«Non solo la strumentazione è generosa, ma anche accurata come mai si era visto fino a quel momento e come per molto tempo, in seguito, non si vedrà. La partitura, infatti, indica esattamente quali debbano essere gli strumenti coinvolti, il che denota l’esigenza precisa, da parte dell’autore, di ottenere determinati colori, e non altri, in funzione drammaturgica».
L’eterno problema del terzo millennio è come ricreare quei suoni, appunto, su strumenti moderni
«Sarebbe riduttivo restringere il discorso interpretativo ad una questione di numero e tipo di strumenti. Anche nel Seicento, la dimensione dell’orchestra variava in considerazione del luogo d’esecuzione, e se la funzione teatrale della musica era inequivocabile, non si può dire lo stesso per il tipo di suono. Motivo per il quale, certi integralismi di oggi rischiano di apparire poco pertinenti».
In generale, però, parliamo di un’opera legata ad un altro gusto, ad altre modalità di fruizione rispetto alle nostre
«La sfida, quando si porta in scena L’Orfeo, consiste nel trovare il punto d’equilibrio tra sensibilità moderna e credibilità storica delle forme. Questo è compito del regista e del direttore d’orchestra».
In breve, limitandoci alla musica, come si ottiene il risultato?
«Diventa fondamentale acquisire confidenza con il repertorio: da qui discende la capacità di operare le giuste scelte dinamiche, di trovare l’articolazione adatta o, ancora, riconoscere peso drammatico ad un recitativo che, ne L’Orfeo, esibisce immediatezza e vivacità straordinarie».
Lei è abituato da molti anni a lavorare con complessi di riferimento in una dimensione privilegiata e quasi laboratoriale: come vive, allora, quest’esperienza al Regio?
«Senza apprensioni particolari, direi. Chiaramente l’assiduità del rapporto rappresenta un optional prezioso, ma ricreare il giusto gioco di squadra – perché di questo stiamo parlando – non è mai difficile in un contesto sano».
Stefano Valanzuolo