L’Orfeo è laboratorio di contaminazione tra le arti

Alessio Pizzech, condivide il suo pensiero sull’Orfeo di Monteverdi, di cui cura la regia per l’allestimento in scena al Teatro Regio nel mese di marzo: «È un’opera che vive di grandi contrasti, sul piano visivo ed emozionale in quanto da un lato abbiamo la speranza della gioia possibile, dall’altro la disillusione indotta dalla morte. In mezzo si pone la percezione progressiva della fine, scandita dalla vecchiaia e proiettata in una dimensione interiore condivisa».

A proposito di dualismi, sia pure non traumatici: musica e danza qui si integrano con maestria…
«La componente coreografica appare essenziale, specie nella prima parte dell’opera in cui diventa elemento trainante e restituisce allo spettatore il clima della festa. Non solo, potrei dire che è da un corpo sensuale e in movimento che l’anima più facilmente si libera».

La presenza di varie forme espressive, dona al titolo una valenza vagamente moderna?
«Per quella che è la nostra sensibilità, forse sì. Ma, in effetti, siamo di fronte ad un format multidisciplinare tipicamente barocco. Stiamo ragionando di un’epoca, infatti, in cui il rapporto tra parola cantata e parola detta viene esplorata a fondo; qualcosa del genere accadrà, su presupposti diversi, anche nel Novecento».

Oggi si potrebbe parlare di contaminazione?
«Ciò che mi interessa particolarmente, appunto, è l’approfondimento dell’universo teatrale barocco come laboratorio di contaminazione tra le arti. L’Orfeo, sotto questo profilo, si pone ad archetipo illustre. La differenza con le epoche posteriori sta nel fatto che questa trasversalità di approccio, oggi variamente perseguita, negli autori del Seicento risulta congenita, naturale. Nel barocco si può cogliere l’istante che passa da un minimo cambio tonale».

Al regista il compito di rendere fluido un percorso narrativo che ha parametri di gusto inevitabilmente datati
«Non si può ripensare registicamente L’Orfeo se non in termini di riscrittura scenica. Occorre creare una messinscena parallela, ricostruire una rete di relazioni tra i personaggi e, di conseguenza, illuminare un versante psicologico che non appartiene, in fondo, a quell’era teatrale».

Da questa scelta scaturisce, pare di capire, l’attualità del racconto…
«Da questa come pure dalla possibilità di gettare un ponte tra il momento storico, fissato da Monteverdi, ed il nostro mondo, sottolineando gli elementi che creano contemporaneità, che ci appartengono. A cominciare dal rapporto fatidico tra Amore e Morte».

Non è plausibile, dunque, riferire scene e costumi a un epoca precisa?
«Più che altro, direi che non è necessario. Preferisco che la vicenda mantenga una dimensione sospesa, in cui l’attualità del tutto non sia legata a precise scelte di ambientazione, ma alla possibilità di creare e offrire al pubblico un linguaggio della scena che sia veramente universale».

Stefano Valanzuolo