Dopo Pagliacci del 2017 Gabriele Lavia torna al Teatro Regio come regista di Cavalleria rusticana.
Partiamo da Verga allora, dalla novella Cavalleria rusticana in Vita dei campi e dal libretto di Targioni-Tozzetti e Menasci.
«È fatale che siano due cose, anche se straordinariamente collegate, straordinariamente divergenti, perché sono due forme diverse. Verga usa una lingua di diamante, perfetta, meravigliosa. Il libretto ha una lingua che viene da Marte: i Siciliani non parlano certo come li fa parlare il libretto! Ma è lo straniamento dell’opera lirica: si canta invece di parlare e poi la grande tradizione melodrammatica vuole quella lingua assurda. Ma tornando a Verga c’è un aspetto della sua vita che mi ha sempre colpito molto: era un grande fotografo. Fotografava i contadini, la gente, e si accorge dello straniamento che produce la foto, quello è il “Vero”. Grazie alla fotografia inventa, se vogliamo, il Verismo che non ha niente a che vedere con la realtà. Il “Vero” è la trascendenza della realtà. La fotografia gli permette di vedere di più rispetto all’occhio umano. La poetica del Verga più grande sorge attraverso questa scoperta: fotografando la realtà, mettendola in posa e chissà cosa passa in testa alle persone che fotografa… Pensi che cercò addirittura di fare delle fotografie in 3D ad Eleonora Duse: proprio in occasione della prima di Cavalleria rusticana, il dramma in un atto unico che aveva tratto dalla novella, al Teatro Carignano di Torino nel 1884, fece una doppia fotografia alla Duse che interpretava Santuzza, ed era una sorta di 3D! Era un genio della fotografia, le sue foto sono magnifiche».
Cosa vedremo sulla scena?
«La scenografia è semplicissima, ci sono delle quinte: chiesa e osteria di Mamma Lucia sono dietro le quinte, in scena accade solo “il fatto”. Ma per raccontare che siamo in Sicilia sulla scena verrà ricreato un paesaggio lavico. Lo so, a Vizzini la lava non c’è ma nella mente del regista il binomio è Sicilia-lava! Sarà perché io sono di origini siciliane e ho abitato a Catania da bambino e mi ricordo questo tipo di paesaggio. I costumi sono quelli del secondo Ottocento, ma senza nessuna pedanteria storica, con una prevalenza del nero: quello che conta è raccontare le anime umane. La regia sarà semplice, voglio raccontare la vicenda senza aggiungere nulla che non sia già dentro la storia, dentro il libretto, dentro la musica: niente di più. Il regista deve “non essere”».
Susanna Franchi