Paola Mastrocola, scrittrice e insegnante, non ha certo bisogno di presentazioni: vincitrice o finalista di numerosi premi letterari (La gallina volante, Palline di pane, Una barca nel bosco, La scuola raccontata al mio cane), con Il carnevale degli animali torna al teatro, suo primo amore. «Devo moltissimo al teatro – afferma – è uno scrivere per gli altri, attori e pubblico, non per se stessi. Poche storie, quel che scrivi deve “funzionare” su un palco: deve arrivare davvero agli altri, non rimbombare soltanto nelle vuote caverne del tuo io».
Dove e quando è venuta l’idea di una drammatizzazione del Carnevale?
«L’idea è venuta al regista, Roberto Piana. Se l’è covata per un po’, e poi ne ha parlato a me, credo per la mia piuttosto nota dimestichezza col parlar di animali (nonché far parlare animali…). All’inizio mi è sembrata un’impresa impossibile. Conoscevo ben poco il Carnevale degli animali, l’ho riascoltato con attenzione, e mi pareva davvero arduo far nascere una storia da 14 minimi brani musicali così evidentemente staccati gli uni dagli altri, senza un filo. Ma quel filo dovevo, volevo, trovarlo a tutti i costi, perché la musica mi piaceva, e anche lo spirito con cui Saint-Saëns l’aveva creata: triste e allegro, giocoso e ironico. C’era dentro la sua amara critica al mondo, ma anche la spensieratezza di far festa alla vita. E mi piaceva che quella musica non avesse una dichiarata unità ma fosse un elenco di “pezzi”, una pura successione di animali che, apparentemente, non avevano alcun nesso. Apparentemente! Ma scrivere, inventare una storia, non è forse trovare dei nessi proprio tra fatti e personaggi anche lontanissimi tra loro?
C’è un punto della partitura da cui l’idea è scaturita?
«Mi son lasciata andare all’ascolto. Ascoltavo e non ci capivo niente. Cosa avevano a che fare le galline con i canguri, i pesci con i leoni? E i fossili e i pianisti, cosa c’entravano con gli animali? Era una sfida narrativa, che mi attirava molto. Ho lasciato che la parte inconscia agisse, e alla fine ha fatto tutto lei. Ha scelto l’elefante, chissà perché… Certo, l’elefante mi piace molto: è così enorme e lento, così (apparentemente) inerme e spaesato, e pesante. Ma sotto quella proboscide, sembra sempre che sorrida!
Che cosa vorrebbe ricordassero i ragazzi di questa storia divertente e profonda?
Alla fine mi è venuta una doppia storia: da una parte un popolo in fuga che, oppresso da un dittatore, è costretto ad abbandonare il suo paese. Dall’altra, la storia di Ibir, il figlio del Re, un elefantino diverso e incompreso perché ha idee non conformi al senso comune e usa la fantasia. Ecco, la fantasia ci fa uscire dalle gabbie, ci regala la libertà. Ma è criticabile e può essere ridicolizzata. Mi piacerebbe che i bambini ricordassero l’importanza della libertà e di essere se stessi, anche sfidando l’incomprensione altrui. Chi ha idee originali, alla fine può risultare il vincente.
Elisabetta Lipeti