Inserita dal “BBC Music Magazine” tra i 20 spettacoli operistici più memorabili degli ultimi 20 anni (unica tra le produzioni italiane), la Thaïs realizzata dieci anni fa da Stefano Poda per il Teatro Regio lasciò il segno. Il visionario regista originario di Trento, che si era costruito una prolifica carriera soprattutto in Sud America, non era ancora noto al pubblico italiano. Da allora è diventato una presenza costante nelle stagioni del Regio, nelle quali si ricordano la prima assoluta dell’opera La leggenda di Alessandro Solbiati nel 2011 e una nuova produzione di Faust nel 2014. È ora la volta di Turandot, ultima e incompiuta opera di Puccini.
Per quale motivo Puccini si dedicò a una fiaba teatrale?
«Ho la sensazione che Puccini avesse bisogno di evadere e rifugiarsi in una dimensione fantastica; di osare, diciamo, il ritorno a un mondo più antico, più mitico, una maniera di dare un nuovo impulso al melodramma del Novecento».
Quale senso acquista la vicenda nel passaggio dal testo teatrale di Gozzi al dramma lirico di Puccini?
«Il tema più importante è quello del Mistero: il mistero degli enigmi, del nome del principe ignoto. Ma il mistero alimenta le pulsioni più profonde: c’è il mistero stesso del Femminile, o quello dell’Amore; e soprattutto il Mistero dell’Altro. Turandot è un grande affresco, un lungo poema dell’Alterità e di come “usciamo da noi stessi”. Tutta la vicenda avviene nella mente, in un sogno, e l’immagine di Turandot non è altro che una riverberazione nella mente di Calaf: Turandot non esiste ma allo stesso tempo vive replicata in ogni donna che abita il palcoscenico».
Chi è Calaf? Che cosa lo muove verso la Principessa di gelo?
«Calaf è il sognatore della vicenda, cioè il creatore di ogni immagine: mi piace pensare che ogni scena e ogni personaggio fuoriescano dalla sua testa e dal suo flusso di ricordi e/o premonizioni. È lui che si immagina Turandot, è lui che la vede ovunque. Muoversi verso il Simbolo che Turandot rappresenta è una sfida di coraggio, è un “uscire da sé” di colpo».
Quale sarà il percorso drammaturgico di questa Turandot?
«Quello che mi affascina della narrazione musicale è il flusso libero del racconto, non razionale, frammentario, soprattutto nel primo atto. È come un susseguirsi di immagini e visioni, una giustapposizione di stimoli senza le necessità di uno svolgimento lineare; ed è quello che mi interessa rappresentare sul palcoscenico: un grande viaggio di rappresentazioni dell’inconscio. Per lo spettatore sarà un susseguirsi di elementi primordiali, un ambiente diafano che riporta al mondo classico ma che sarà talmente depurato da apparire indefinito».
Simone Solinas