Tutti i pregi del Trovatore. Intervista a Pinchas Steinberg

Il trovatore è una di quelle opere – non poche, in verità – che Pinchas Steinberg frequenta da moltissimi anni e che ha imparato ad amare. Passa per un titolo “di repertorio”, ma ce ne sono altri, anche in ambito verdiano, che vanno in scena con frequenza certamente maggiore…
«Questione di voci, non di impatto sul pubblico», spiega Steinberg. E aggiunge: «Per rappresentare credibilmente Il trovatore, rendendo giustizia a Verdi, servono almeno quattro voci importanti, ognuna delle quali possegga chiare attitudini da protagonista. Il che, obiettivamente, non è cosa facile».

Il rischio, a pensarla così, è quello di ridurre Il trovatore a un campionario di virtuosismi canori…

«Ma no, si capisce che l’opera ha moltissimi altri pregi. L’efficacia con la quale la scrittura orchestrale, per esempio, sa addentrarsi nelle pieghe del racconto, illustrandone le sfumature con forza espressiva esplicita, non trova uguali in nessun  altro autore dell’Ottocento. Verdi qui vola decisamente più in alto del belcantismo di maniera».

E invece qualcuno, dal confronto con altri lavori verdiani anche coevi, ricava l’idea che  Il trovatore guardi un po’ troppo al passato…

«Nell’impostazione della struttura complessiva, rigorosamente a numeri chiusi e regolata da una senso irrinunciabile di simmetria, Il trovatore allude sicuramente a qualche nobile modello precedente: per esempio, al Rossini serio, cui Verdi guarda con devozione chiara e inconfessata. Ma è proprio su questa trama assodata e riconoscibile che si innesta il lavoro di ricerca specificamente orchestrale, volto ad ottenere nuove tinte: un approccio quasi sovversivo, come si vede».

Come collocherebbe questo titolo, allora, nella generale vicenda verdiana?

«Il trovatore è un prodotto rappresentativo della fase verdiana di mezzo, quella in cui l’autore si inoltra con curiosità febbrile nel tessuto musicale, magari senza operare azioni dirompenti, ma con una densità di idee stupefacente».

Il suo personaggio preferito?

«Azucena è quella che muove le fila del racconto, cosa che produce esiti molto originali, trattandosi di una donna definita dal libretto “abietta” e “fosca” e, per giunta, con un registro vocale non da eroina a tutto tondo».

Il suo Manrico ideale è un tenore eroico o amoroso?

«L’uno e l’altro aspetto appaiono irrinunciabili ed è l’equilibrio tra le due componenti a dare forza e credibilità al personaggio. Che non deve risultare troppo smielato, ma neppure un supereroe. Franco Bonisolli, al cui ricordo sono molto legato, è stato, in questo senso, un Manrico perfetto».

Stefano Valanzuolo