Giovanni Puddu, una chitarra “intorno a Granada”

Abbiamo intervistato il chitarrista cagliaritano Giovanni Puddu, protagonista del processo di rinnovamento che attraversa oggi il mondo della chitarra.

Maestro Puddu, qual è la ratio nella scelta dei brani che propone in questo recital per l’Unione Musicale?

Si tratta di un omaggio a Joaquìn Achùcarro, in occasione del suo ottantaseiesimo compleanno, e al magistero del grande interprete iberico, cui l’Unione Musicale mi ha domandato di dar vita.
Il repertorio in programma mercoledì 21 novembre (Conservatorio, ore 21) è, in effetti, del tutto speculare al repertorio pianistico scelto da Achucarro per il suo recital, in calendario una settimana dopo. Le suggestioni di “intorno a Granada” proposto da Joaquìn Achucarro ci sono tutte: ruotano attorno al capolavoro chitarristico di Falla, a sua volta un “Homenaje” in memoria del suo amico e compagno di riflessioni per una vita intera, Claude Debussy. La scelta di un movimento dedicato alla città natale del più grande compositore iberico, tratto dalla Suite Española op. 47 di Albeniz, della quinta delle Doce danzas españolas, la Andaluza, (omonima dell’ultima tra le Quatro piezas españolas di Falla, dedicate ad Albeniz) di Granados, rappresentano ulteriori pendants.
Ma non ci siamo arrestati alle colonne d’Ercole della penisola iberica: due aedi romantici dell’Europa centrale, il polacco Fryderyk Chopin e lo slovacco Johann Kaspar Mertz, chiuderanno i rispettivi programmi, a testimonianza dei raggiungimenti di due virtuosi-compositori fortemente legati al progetto di universalizzazione delle proprie radici (esattamente come il Falla dell’“andalucismo universal”).

Prevale in entrambi i programmi la letteratura spagnola di fine Ottocento primo Novecento, in piena fioritura delle scuole nazionali: forse perché la chitarra è strumento per eccellenza dell’hispanidad e dunque solo questo sound può fare da specchio per un simile clima?

Come spiegavo, i due programmi si guardano specularmente, talché la “prevalenza” di cui lei parla è in re ipsa. Quanto al pianoforte, il più grande interprete vivente della scuola nazionale spagnola propone quanto attinge alle più intime fonti della sua poesia e della sua ispirazione. Nel festeggiare il genetliaco di Achucarro, la chitarra tenta di immergersi nell’identica temperie.Trattasi dunque di una hispanidad “applicata”. In secondo luogo, rammento che la chitarra, prima di assumere i sembianti odierni, eredità del lavoro liutario di Antonio de Torres Jurado, godeva di florida esistenza nell’intera Europa. E non è casuale che un lucchese, Luigi Boccherini, negli anni settanta del XVIIII secolo ponga mano a due libri, ciascuno di sei componimenti, di quintetti per quartetto d’archi e chitarra. Così come casuale non può essere che un biscegliese, Mauro Giuliani, sia stato il più grande chitarrista di tutti i tempi. Non sussiste alcun genius loci per gli strumenti della civiltà musicale moderna eurocolta.

È importante sottolineare questo, perché nell’immaginario collettivo la chitarra è collocata inevitabilmente in Spagna…

Vede, non credo che in quello che lei denomina “immaginario collettivo“, vi sia molto spazio per operazioni di precisa connotazione culturale di una oppure di un’altra entità linguistica della Musica d’arte. Gli è che oggi si discute di chi sia il nuovo Mozart (nell’immaginario collettivo additato in Giovanni Allevi, ancorché il sottoscritto si ritrovi nelle posizioni di Uto Ughi), oppure si disputa circa il prevalente campo di esistenza del ritmo nella musica di Jovanotti o in quella di Beethoven… paiono cabalette, eppure è vero. Tuttavia, mi lasci citare il grande Giorgio Gaber: «Il tutto è falso, il falso è tutto». Io sono semplicemente un interprete nato in Italia: pertanto mi incombe l’obbligo di suonare Giuliani. Joaquìn Achucarro è nato a Bilbao: immagino che anche in lui, nell’interpretare Falla, l’obbligo si cumuli con la naturalezza della gioia. Ciò detto, la Musica d’arte, ça va sans dire, non conosce e mai potrà conoscere confini, di natura veruna.

Perché uno strumento come la chitarra è tuttora marginalizzato, nel mondo musicale?

Domandarsi questo è un poco come domandarsi perché il libro a stampa e gli altri media che han preso vita grazie all’invenzione di Gutenberg (e si parla della metà del XV secolo, non del 1982) vadano oggi incontro a rischi enormi, le cui ripercussioni antropologiche, sociali e culturali sono incalcolabili. Lo svolgersi del XXI secolo ci pone dinnanzi al dilemma di un futuro che inveri una possibile, catastrofica infrazione di un principio che ha segnato il modo di vivere nella civiltà occidentale lungo oltre cinque secoli di storia: quello dell’esatta determinazione del tràdito, non solamente culturale, come ineludibile presupposto del procedere verso il nuovo.
Ma McLuhan, Orwell, Popper, Bauman non ci avevano potentemente messo in guardia, circa tutto ciò? Si parva licet, la chitarra deve cessare di auto-ghettizzarsi, deve integrarsi permanentemente nella koinè musicale alta rinuziando a rivendicazioni di “nobile alterità”, deve chiudere per sempre ogni “cahier de doléances”.
In che modo? Considerando se stessa, semplicemente, come una entità linguistica integrativa della vita musicale degli ultimi due secoli e mezzo. Fu Angelo Gilardino ad ammonirci in questo senso, non pochi anni or sono. E il suo monito, ancora, attende di trovare riscontro.

Bene, proprio per facilitare un contatto autentico e diretto con un programma di qualità, ci aiuti ora ad accompagnare gli ascoltatori lungo il concerto.

Fernando Sor non nacque nei pressi di Granada, ma anch’egli rappresenta un côté della musica spagnola. Parliamo di un autore molto noto, che si spense nel 1839, due anni dopo la tragica scomparsa della figlia. Accostabile, tra i coevi, a Pleyel e Cramer, Sor fu attivo su tutti i versanti della composizione, non esclusivamente su quello dedicato alle strumento che suonava: pianoforte, camerismo, sinfonismo, operismo, balletto. Il catalano fu, in particolare, eccellente miniaturista: l’Andante Largo del mio programma, costituisce il quinto numero delle Six petites pièces dell’op.5 di Sor.
Si tratta di un brano che testimonia efficacemente quella predisposizione al miniaturismo e alla subtilitas nel trattamento armonico, ed è divenuto, a mio parere legittimamente, molto celebre.

L’Homenaje “Le tombeau de Claude Debussy” è un assoluto capolavoro, nell’ambito della storia della letteratura per il mio strumento. Parimenti, purtroppo, è l’unico lascito chitarristico del grande Falla. Il Maestro di Cadiz lo scrisse come compianto funebre per la scomparsa dell’illustre collega francese, ricavandone una “mesta e calma” habanera fondata sull’intervallo di seconda minore discendente (fa-mi), interpolando la struttura portante con inserti drammaturgici desunti dal cante jondo e giungendo, nel finale, alla citazione del secondo tempo della Suite pianistica Estampes di Claude Debussy: La soirée dans Grenade. È, a mio parere, un simbolo di quello che la chitarra avrebbe potuto essere, nel XX secolo, attraverso l’accostamento ad essa dei più eminenti impressionisti francesi, dei Maestri della Seconda Scuola di Vienna, di compositori come Stravinskij, Bartòk, Prokofiev.

I due brani più conosciuti di Johann Kaspar Mertz – la Fantaisie hongroise op. 65 n. 1 e l’Èlegie – chiudono la prima e la seconda metà del concerto. Il compositore slovacco (dunque, austro-ungarico) è uno dei bardi romantici della chitarra, e nel suo stile non si può può non cogliere strettissima affinità con il pianoforte, soprattutto a motivo dell’influenza della di lui moglie Josephine Plantin, lodevole pianista che accompagnò Mertz in celebri performances pubbliche, tra le quali quella in Salzburg del 1855,a beneficio della Famiglia Imperiale. L’intero catalogo delle opere di Johann Kaspar Mertz incarna un riuscito impiego di modelli di scrittura pianistico-liederistica, dal sapore schubertiano e chopiniano, che lo impongono come figura centrale del romanticismo chitarristico.

Di Mauro Giuliani, il più grande chitarrista di tutti tempi (esattamente nel senso in cui Franz Liszt lo fu per il pianoforte) interpreterò la Rossiniana op. 120 n. 2 proprio perché mi piace pensare al grande biscegliese come ad un Rossini o un Paganini del mio strumento.Come dimenticare che, durante il soggiorno viennese di Giuliani, tra il 1806 e il 1819, secondo quanto testimoniato dalla Allgemeine Musicalische Zeitung, in mezzo agli altri spettatori, nel corso delle esibizioni pubbliche del Maestro pugliese sedeva un certo… Ludwig Van Beethoven? Il brano è un pot-pourri brillante in cui, dopo un’ampia introduzione in forma di ouverture orchestrale – così come avveniva per le opere rossiniane – l’autore centonizza, parafrasa e varia da par suo celebri arie del pesarese. Tra queste ultime, nel caso di specie, rimane incastonata anche la pregevole “Nume, perdonami!”, tratta da I Baccanali di Roma di Pietro Generali. Un caleidoscopico avvicendarsi di invenzioni idiomatiche, timbriche, dinamiche ed armoniche, consente alla chitarra di conseguire una profondità di tessitura nella quale s’intrecciano modelli pianistici, violinistici e lirico-vocali, unificati e vivificati da un intuitus compositivo di prim’ordine. Mauro Giuliani rappresenta una delle assolute certezze su cui riposa la carriera di chi sceglie la chitarra per esprimersi musicalmente.

A chi abbia avuto la fortuna, come il sottoscritto, di ascoltare i rulli in cui sono registrate le esecuzioni pianistiche di Enrique Granados ed Isaac Albéniz, riesce palmare la statura di questi titani della composizione per pianoforte. Sebbene – probabilmente – la loro musica dall’esito più felice si trovi rispettivamente in Goyescas e in Iberia, anche i due brani che propongo sono pregevoli testimonianze di una fertile inventiva linguistica legata al colore iberico, ancorché questa non si innalzi all’universalismo e alla geniale creatività di Falla.
A margine va detto che le trascrizioni di Mallorca op. 202, di Cadìz op. 47 e dei numeri 4 (Villanesca) e 5 (Andaluza) delle Doce Danzas Españolas,sono esempi di un’operazione musicale di “riuso” e adattamento strumentale, i quali affondano radici su una esegesi chitarristica già abbondantemente storicizzata e sedimentata, attorno a queste opere. Si è soliti udire che le suggestioni evocate dal pianoforte e dalla chitarra siano le medesime, a proposito del “colore iberico” e del gusto estetico indubitabile che sorregge queste pagine di Albeniz e Granados: può essere, ma ciò non consente di postulare la preferibilità della loro esecuzione chitarristica, a paragone dell’originale pianistico.

Gianni Nuti