«Con Hespèrion XXI esploro un’Europa musicale più solida e riconoscibile di quella politica»
Intervista a Jordi Savall

Il concerto che Jordi Savall con Hespèrion XXI propone all’Unione Musicale (mercoledì 19 febbraio, Conservatorio – ore 21), in occasione del suo ritorno sulla scena torinese, potrebbe essere letto come un viaggio senza confini attraverso epoche e culture. Un programma che mette insieme Ortiz, Sanz, Dowland, Froberger, Bach, Marais e altri autori di estrazione diversa conferma come esista, da tempi non sospetti, un’Europa musicale ben più solida e riconoscibile di quella politica. Dello stesso avviso è anche Savall.
«Sono assolutamente d’accordo, la musica – osserva l’illustre ospite catalano – ha contribuito in maniera decisiva alla costruzione di una tradizione e, soprattutto, di un’identità culturale europea che potesse dirsi di proiezione universale».

Quali sono, a suo avviso, gli elementi identitari di riferimento?
«L’invenzione dell’armonia, la nascita del contrappunto, l’irrompere della polifonia sono tutti fattori che concorrono a formare una civiltà musicale forte e riconoscibile. Di conseguenza, il canto stesso diventa tratto culturale trasversale, impossibile da racchiudere entro confini geografici ristretti».

Questo concetto di riconoscibilità può essere considerato valido ancora oggi?
«Se parliamo di musica, sì. Mozart, Beethoven, Vivaldi, Rameau agli occhi del mondo sono ritenuti compositori europei; nati tedeschi, francesi o italiani certamente, ma diventati creatori d’un linguaggio profondamente europeo. I princìpi della civiltà musicale tracciati nel vecchio continente sono diventati, col tempo, di tutti».

Parlavamo, prima, di un concerto disegnato quasi come un viaggio geografico e temporale. Ma è sempre possibile trovare un filo rosso che colleghi ere ed autori tra loro?
«Sì, sempre. Anche geni inarrivabili come Bach e Mozart vanno inquadrati, compresi e valutati all’interno di un percorso storico coerente, considerando presupposti ed esiti. Ogni grande autore prende le mosse, inevitabilmente, dall’esperienza di chi lo abbia preceduto. Dopo di che, in base alle proprie qualità, potrà far segnare un’evoluzione in termini di forma, energia e dinamica del linguaggio. Credo che solo con la nascita della Dodecafonia, in fondo, si sia assistito ad un processo brusco e irreversibile di rottura con il passato».

Qualche volta, lei ha paragonato il suo lavoro di musicista e ricercatore a quello dell’archeologo, sempre alla ricerca di opere dimenticate…
«In qualche modo è vero, sì. Ma noi musicisti abbiamo un vantaggio e una responsabilità in più rispetto agli archeologi. Loro portano alla luce, spesso, frammenti incompiuti di un’opera d’arte e possono solo consegnare alla fantasia di ognuno il compito di immaginare la parte che manca. Noi, invece, la ricreiamo di nuovo ogni volta che la interpretiamo. L’archeologo non può ricostruire un’atmosfera, mentre un musicista sì. Anzi, non solo può, ma deve farlo».

Il suo discorso, però, implica un approccio anche scientifico…
«Non basta essere un bravo musicista o un virtuoso per rendere giustizia fino in fondo alla musica del passato. Occorre una precisa consapevolezza del contesto storico in cui un certo repertorio nasca e si sviluppi. Oltre le note, dobbiamo studiare la storia del momento, la pratica dei strumenti, dell’ornamentazione, l’articolazione… inclusi i dettagli!»

E magari, così facendo, si scopre che il barocco non è affatto uno stile vessato da regole rigorose, ma un mondo espressivo in cui ricorrono libertà e fantasia…
«Certamente sì, ma la libertà e la fantasia si fondano sulla profonda conoscenza della musica e dello stile. Quando Mendelssohn nel 1829 riscopre Bach e il suo mondo, lo fa reinterpretando il sommo autore secondo lo stile romantico dei propri tempi. Compie un’operazione di rivalutazione lodevole, ovviamente, senza pretese filologiche, prendendosi più di qualche libertà, se parliamo di gusto. Da quel momento, e a lungo, Bach sarà eseguito tenendo conto della partica romantica dell’Ottocento, ricorrendo spesso ad un eccesso di rubato… In reazione a tutto questo, la prassi moderna – a partire dagli Anni 60 – riaffermerà la forza di un approccio molto più rigoroso. La qual cosa è fondamentale, si capisce, purché sia posta al servizio di un fraseggio sensibile, di un’espressività irrinunciabile».

La sua formazione d’artista comincia con il violoncello: uno strumento il cui suono è stato a lungo frainteso, a proposito di Bach…
«Nella mia memoria resta l’eco del suono di Casals: nobile, flessibile, affascinante e mai romantico nel senso convenzionale del termine. Suonava uno strumento italiano barocco, con corde di budello. Quando gli strumenti con le corde in metallo hanno preso il sopravvento, i violoncellisti hanno dovuto cominciare a vibrare in maniera più intensa e regolare per dare calore al suono, con effetti spesso poco differenziati per il repertorio barocco».

Quanto è importante per Jordi Savall il concetto di squadra? Ossia, quanto conta per fare buona musica il livello di confidenza che si ha con i partner?
«Evidentemente molto. Le faccio il mio caso: in cinquant’anni di carriera ho suonato con un numero enorme di colleghi, in ogni tipo di organico, ricavandone grande piacere e successo. Alla fine della vita, però, ognuno sta accanto più volentieri a coloro con i quali è riuscito a stabilire un rapporto proficuo, umanamente e artisticamente. Cerco sempre di coinvolgere i miei compagni d’arte in modo che ciascuno si senta responsabile per la propria parte e contribuisca al tutto in maniera personale, attraverso la compenetrazione reciproca».

La sua con Hespèrion XXI sembra una lunga storia felice…
«Lo è! Per quanto non siano mancate pure tra noi, qualche volta, le classiche discussioni: capita in qualsiasi famiglia che si rispetti, anche nella più unita. I problemi, però, li abbiamo sempre risolti suonando, non discutendo. La migliore comunicazione e quando po’essere musicale e quasi telepatica. Quando in un ensemble si avverte il bisogno di scambiarsi troppe parole, non è un buon segno…».

Stefano Valanzuolo